Il processo di transizione

Qualunque sia la rotta del proprio viaggio, due sono le cose che non bisogna cessare di fare in ogni istante. La prima è aver presente la meta, per lontana che sia; esser capaci di guardare incessantemente verso l’orizzonte e oltre ancora. La seconda è fare attenzione agli scogli, alle secche, alle correnti, ai venti, sapere dov’è il prossimo approdo in cui ci si potrà rifornire di acqua, quanto cibo c’è nella stiva, a quali tempeste può resistere la propria imbarcazione, quanto è affidabile l’equipaggio. Saper operare, in altre parole, una interazione funzionale di utopismo e pragmatismo, perché senza il secondo il primo rimane confinato nel regno delle chiacchiere da salotto, senza il primo il secondo striscia in una misera quotidianità senza avvenire.
Nel tracciare le linee generali del punto di arrivo della transizione ho rivolto lo sguardo all’orizzonte. Rimane ora da guardare intorno a sé, a partire dal punto in cui siamo, decidere punto per punto la rotta, valutare gli ostacoli, la (grande) distanza da coprire e la capacità della nostra (piccola) imbarcazione di tenere cotanto mare.
Se è chiaro dove siamo e quali mali ne scaturiscono ed è conseguentemente chiaro dove dobbiamo arrivare per giungere a una situazione sana, molto meno chiaro è il problema di quali strategie debbano attuarsi per avviare il processo di transizione. Sappiamo che siamo di fronte a due imperiosi bipolarismi: città-campagna e produttore-consumatore, che si manifestano quasi sempre come antagonismi. Sappiamo che bisogna agire, nell’uno come nell’altro caso, su entrambi i poli per avviare un processo di reciproco smussamento e compenetrazione. Ma quale possa essere il motorino di avviamento di questo processo è una domanda oggi ancora senza risposta. Tuttavia si possono intravedere alcune vie.

La campagna e i produttori.
La situazione produttiva attuale è caratterizzata da una parte da una forte industrializzazione (tendenza prevalente), dall’altra da un insieme di aziende orientatesi verso il metodo biologico e da organizzazioni di riferimento del settore, come l’AIAB. La presenza di comunità alternative, tipo ecovillaggi, è quantitativamente non significativa e dunque non sarà qui considerata. I produttori che hanno operato la scelta biologica sono dunque l’unica realtà di partenza su cui si possa pensare di operare per dirigersi verso la ricostituzione di una visione ecosistemica della produzione agraria.
Bisogna poi considerare la popolazione delle campagne. Essa è oggi costituita da un insieme piuttosto ibrido di popolazione di campagna propriamente detta e popolazione proveniente dalle città. Quest’ultima componente spesso giunge nel nuovo luogo mantenendo pressoché intatto lo stile di vita cittadino, non pratica alcuna forma di autoproduzione alimentare o la pratica in forma esclusivamente hobbistica e non significativa. Quanto alla prima, spesso l’autoproduzione è praticata, ma con frequente – e convinto – ricorso a tecnologie chimiche e metodi colturali invasivi. Si è verificata inoltre negli ultimi decenni una generalizzata disgregazione dell’idea di comunità locale. Non è mai storicamente esistito infine il concetto di rete di comunità locali, se non in funzione di alleanza militare. Bisogna dunque operare sul territorio creando occasioni di aggregazione conviviale e al tempo stesso funzionale fra la gente e fra essa e i produttori biologici locali, occasioni che coagulino progressivamente un insieme di rapporti vitali fino a renderli permanenti. Nel sistema attuale, dominato da una visione totalmente economica della produzione, le aziende potranno non vedere di buon occhio l’incoraggiamento di pratiche autoproduttive. Si dovrà dunque impostare un sistema in cui l’instaurarsi diffuso di tali pratiche sia di generale beneficio. Il produttore ad esempio potrà ricevere dalla comunità servizi che altrimenti dovrebbe acquistare all’esterno.

Le città e i consumatori. La città è il modello di insediamento della società della crescita ed è strettamente funzionale a essa. E’ la realizzazione di un modo di abitare, di relazionarsi e di produrre obsoleto e malsano né è pensabile una sua riformabilità perché comunque la si modifichi rimangono inalterate le sue caratteristiche escludenti. Dalla vita in città è esclusa qualunque cosa che non sia l’artificiale, l’inorganico, il posticcio. La vita è sorretta, come in una coltivazione intensiva, da un numero sempre crescente di protesi tecnologiche che tuttavia non riescono ad arginarne il crescente degrado etico, culturale, materiale. E’ esclusa ovviamente ogni forma di autoproduzione, ogni percezione diretta della natura ecosistemica del nostro rapporto col mondo vivente, perfino, nonostante l’altissima densità abitativa, ogni rapporto sociale.
La città è pertanto da superare; tuttavia, per le proporzioni gigantesche che l’urbanizzazione di massa ha ormai assunto, è vero anche che non è un fenomeno immediatamente superabile. Occorre dunque lavorare anche all’interno delle città stesse inserendovi un pullulare di pratiche di vita il più possibile sane che ne disgreghino progressivamente la malsana monoliticità. Anche qui uno degli obiettivi fondamentali sarà ricreare il senso della comunità locale, cosa che può essere fatta a livello di quartiere o anche di singolo condominio ma anche, e forse soprattutto, creando legami comunitari fra persone, anche distribuite in maniera sparsa sul territorio urbano, già culturalmente predisposte all’idea di transizione. Anche qui i rapporti dovranno essere simultaneamente conviviali e funzionali; diversi saranno però, per ovvie ragioni, i tipi di funzionalità che, in un contesto così diverso e anomalo, si potranno realizzare rispetto a quelli realizzabili nella campagna. Altrettanto importante sarà stabilire un costante canale di comunicazione con le comunità extraurbane e con i produttori più vicini a esse, nonché, in generale, incrementare ogni genere di rapporto funzionale città-campagna.

La questione zootecnica
Zootecnia e pesca industriale sono in campo alimentare ciò che la scelta nucleare è in campo energetico. Al no senza riserve rivolto a quest’ultima deve essere pertanto affiancato un no altrettanto netto rivolto alle prime. Siamo tuttavia molto lontani da ciò. Perfino all’interno del movimento ecologista queste tematiche sono spesso sconosciute tanto che l’attenzione è deviata verso problematiche di importanza secondaria come il “cibo a Km 0” o, a proposito della deforestazione, al “legno certificato” (ma solo il 3% del legname abbattuto è destinato alla commercializzazione). Occorre dunque anche qui un agire per gradi, partendo dall’interno delle componenti sociali alternative (GAS, ambientalisti ecc.) e allargando progressivamente l’insieme degli interlocutori con un andamento a cerchi concentrici.

L’alimentazione come adesione a un modello di cultura
E’ cosa nota la presenza diffusa di una forte resistenza al cambiamento da parte dell’uomo medio, a qualunque cultura appartenga. Questo è vero soprattutto per quell’insieme di comportamenti che sono percepiti come qualificanti del modello di cultura del gruppo di cui l’individuo si sente parte. Modificare tali comportamenti significa uscire dal gruppo. L’adesione a essi inoltre è pressoché sempre acritica e dunque prescinde dalla eventuale esistenza di argomenti razionali di segno contrario. Le scelte alimentari fanno parte di quell’insieme di comportamenti che definiscono l’identità di gruppo e ciò spiega sia la frequenza di reazioni emotive di fronte alla prospettiva di mutarle, sia la grande diffusione di pregiudizi totalmente privi di fondamento nei confronti di scelte alimentari alternative. Dimostrare sul piano degli argomenti razionali la necessità di tali scelte alternative non è dunque sufficiente a ottenere risultati concreti sul mondo reale. Occorre lavorare anche su quella dimensione dell’immaginario sociale che è costituita dal modello di cultura dominante. Questa è anzi la componente più importante del lavoro da svolgere.

Il gruppo di lavoro
Vogliamo costituire all’interno del Movimento per la Decrescita Felice un gruppo di lavoro che approfondisca queste tematiche ed elabori delle linee di azione da seguire. Il gruppo dovrebbe essere costituito da un insieme di consulenti esperti che forniscano la base oggettiva della tematica nelle sue varie sfaccettature (zootecnia, agricoltura biologica, aspetti nutrizionali ecc.). Attorno a questo nucleo è fondamentale costituire poi un gruppo di divulgatori-comunicatori che curino l’approccio comunicativo rivolto all’esterno, con particolare riferimento all’ultimo degli aspetti sopra descritti.
Un primo obiettivo del gruppo di lavoro dovrebbe essere la realizzazione di un libro (titolo provvisorio: Il pianeta nel piatto – Decrescita e transizione agroalimentare) di impostazione spiccatamente divulgativa, che fonda la descrizione dei dati oggettivi alla sollecitazione dell’immaginario, fondamentale, come sopra detto, per innescare la spinta al cambiamento.
Questo primo passo sarà poi la base per elaborare una serie, da definirsi, di iniziative sul territorio, anche in sinergia con altre entità alternative utilmente complementari alla nostra.

Bibliografia provvisoria
[1] Jeremy Rifkin, Ecocidio, Mondadori, Milano, 2001.
[2] Massimo Tettamanti, Raffaella Ravasso, Ecologia della nutrizione, Agire Ora Ed., Torino, 2005.
[3] Christopher Weber e Scott Matthews, Food-miles and the relative climate impacts of food choise in the United States, su Environmental Science and Technology, aprile 2008.
[4] AA.VV., Livestock long shadow, FAO, 2006.
[5] Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 1966.
[6] AA.VV., Dalla fabbrica alla forchetta (www.saicosamangi.info).
[7] Luciana Baroni, I vantaggi dell’alimentazione vegetariana, SSNV, 2003.
[8] Carlo Consiglio e Vincenzino Siani – Evoluzione e alimentazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
[9] Lester R. Brown, I limiti alla popolazione, Mondadori, Milano, 1973.
[10] Franco Berrino, Il cibo dell’uomo, Fondazione IRCCS, Milano, senza data.
[11] AA.VV., La transizione agroalimentare, Post Carbon Institute, 2009.
[12] Enrico Morioni,  Le fabbriche degli animali, Cosmopolis, Torino, 2007.
[13] Jonathan Safran Foer, Se niente importa, Guanda, 2009.
[14] Charles Patterson, Un’eterna Treblinka, Editori Riuniti, Roma, 2003.
[15] Michael Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, Adelphi, Milano, 2008.

Le proposte di collaborazione alle attività del gruppo possono essere inviate, anche da parte di persone esterne a MDF,  al coordinatore del gruppo stesso, Filippo Schillaci (filipposchillaciATyahoo.it).

 

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