Il cambio di destinazione valorizzerebbe i terreni, ma a loro non interessa. "Questa è la nostra vita da sempre, far morire i campi non è vera ricchezza".

Prima uno, poi un altro, poi un altro ancora. Da Morgano a Valdobbiadene, da Godega di Sant’Urbano a Conegliano e quindi nel capoluogo, a Treviso. Altri, si dice, verranno. Sono contadini, proprietari di terreni che i Comuni vogliono rendere edificabili per farci villette e capannoni industriali. Ma loro si oppongono e insistono perché restino agricoli. Ci perdono tanto: il cambio di destinazione può valere dalle cinque alle dieci volte il prezzo di partenza …

Non è come una decina d’anni fa, quando questo lembo di Veneto fu seminato di cemento e un’edificabilità faceva crescere anche di cento volte il prezzo agricolo. Ma è pur sempre la rinuncia a un bel gruzzolo.

Eppure non demordono. La famiglia Favaro di Morgano e la famiglia Caldato di Treviso coltivano la terra che coltivavano i nonni e chiedono di continuare o anche solo di tosare il quadrato verde che sta davanti a casa, di curare gli scolmatoi, di pulire le rogge e di non vederlo diventare lo svincolo di un distretto industriale. Nel frattempo il Comune gli impone di pagare l’Ici come se avessero già costruito. Ma dalla loro parte sono schierati il Fai e Italia Nostra e li assiste Francesco Vallerani, geografo dell’Università di Venezia.

I Favaro e i Caldato sono mosche bianche in questa provincia. Stando ai calcoli di Tiziano Tempesta dell’Università di Padova, nei piani regolatori dei 95 comuni del trevigiano sono conteggiate 1077 aree produttive, dieci per comune, la gran parte inferiori a 5 ettari e disseminate a caso nel territorio. Molti, però, sono i capannoni sfitti (il 20 per cento in tutto il Veneto) e molte le aree già lottizzate sulle quali non si costruisce. Una, grande 15 mila metri quadri, è quasi al confine della proprietà dei Favaro. E lungo la provinciale che porta dai Caldato c’è un filare di stabilimenti vuoti. Ma nonostante questo, le concessioni di edificabilità fioccano quasi per inerzia. Chiunque può se le accaparra. Non tutti, perché il trevigiano è il territorio con il più alto numero di comitati in difesa del paesaggio, benedetti da Andrea Zanzotto che vigila dalla sua casa di Pieve di Soligo.

I Favaro hanno 4 ettari di terreno a Morgano. Coltivano mais. Ma la loro specialità è un vivaio di piante autoctone – aceri, querce, olmi, platani – allevate in un piccolo bosco che ripropone un brandello di paesaggio veneto. Chi le compra le lascia crescere lì e poi le porta via con l’intera zolla dopo tre o quattro anni. L’amministrazione comunale ha deciso che Morgano deve ingrandirsi con un’area industriale di 90 mila metri quadri in una zona paludosa, circondata da corsi d’acqua e che, sovrastata di cemento, rischia di finire sotto, come durante l’alluvione di due mesi fa. Siamo nel Parco del fiume Sile, in un sito protetto dalla Comunità europea. In questi 90 mila metri quadri ci sono i 40 mila dei Favaro. "A noi bastano i soldi che guadagniamo facendo gli agricoltori. Qui il cemento si mangia la terra, ma non porta più ricchezza", dice uno dei fratelli Favaro, "se avessimo l’edificabilità e vendessimo non ci darebbero soldi, ma un appartamentino in una villetta a schiera". Ora la decisione rimbalza fra Comune e Regione. Ma se l’edificabilità fosse imposta, i Favaro andranno in tribunale.

Più piccolo – 18 mila metri quadri – il terreno dei Caldato, alle porte di Treviso. Ma molto antica la storia che Pietro, con il fratello Roberto e la sorella Enrichetta, ha ricostruito fin dal Seicento e che attesta la loro proprietà dai primi dell’Ottocento. Ci sono una vigna, un orto e tanto prato. Ma il Comune di Treviso vorrebbe farne area industriale, squarciando il terreno con una strada che sfocia in una rotonda. E ai Caldato chiede di pagare l’Ici dal 2003, quando fu approvata la variante al piano regolatore: quasi 60 mila euro. "Della ricchezza che altri inseguono non sappiamo che farcene", dice Pietro. Ora con il Comune è in corso una trattativa. È intervenuto il sindaco. "Rischiamo di perdere la nostra terra e la nostra libertà. Ma ancora preserviamo il nostro modo di pensare e di vivere. I soldi? Non possiamo portarceli dietro quando saremo morti".

Fonte: La Repubblica (10 Gennaio 2011) ripreso da AltritAsti.it

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