Diciamoci la verità, se sotto l’aspetto emotivo e psicologico la precarietà in cui ci troviamo a vivere può avere effetti devastanti, sia su noi stessi che sulla società in cui viviamo, anche da un punto di vista più “pratico” la situazione non è rosea.

In quasi totale assenza di autonomia alimentare e professionale, ossia in un contesto in cui si sta rischiando di dimenticare il saper fare ed in cui l’autoproduzione di beni rimane per i pochi che la vorrebbero praticare solamente un lontano miraggio, i “giovani adulti” di oggi devono affrontare l’elevata incertezza che spesso caratterizza le loro condizioni lavorative.

Vivere con i genitori fino a 30 o 35 anni non è in molti casi una scelta, ma una necessità. Soprattutto quando, terminati gli studi universitari, quando non si accetta di diventare commessi o operatori di call centre, la massima aspirazione è quella di ottenere da una ditta qualunque un contratto a progetto o a tempo determinato.

Ma, al di là delle gratificazioni o dei guadagni che si possono ottenere o meno nel presente, ciò che inquieta maggiormente sono le previsioni del futuro. Che sistema sociale ci si può aspettare un domani, quando i trentenni attuali si ritireranno, seppure in ritardo rispetto ai propri padri dal mondo del lavoro, nel momento in cui questi avranno versato perlopiù bassi e discontinui contributi sociali?

E ancora: quale rapporto fra diverse generazioni ci si può aspettare quando i giovani di inizio secolo, spesso non preparati ad affrontare la vita adulta ed abituati a rinviare all’infinito le decisioni più cruciali ed importanti della propria vita, si ritroveranno a ricoprire il ruolo di educatori? A cosa può portarci l’incapacità di fare progetti per il futuro? Sicuramente a nulla di buono.

Che cosa si può fare, quindi, per ritrovare la fiducia nel futuro, nel presente e soprattutto in noi stessi che è andata sempre più scemando nel corso degli ultimi due o tre decenni?

Innanzi tutto si può riscoprire abilità che, in molti casi, non ci sono state neppure insegnate. Si può, ad esempio, riscoprire il “saper fare”. Come si può leggere sul sito www.unisf.it, il saper fare “si basa sul recupero di alcune preziose capacità pratiche andate perdute negli ultimi decenni, da quando la società occidentale ha abbracciato il modello di sviluppo consumistico, ad altissimo impatto sull’ambiente, basato sul frenetico consumo di prodotti usa e getta, concepiti per durare il meno possibile ed essere rapidamente sostituiti, trasformandosi così in rifiuti costosi da smaltire, gravati da imballaggi ingombranti e altamente inquinanti”.

Il saper fare è una sorta di rivoluzione culturale, che presenta una quantità incalcolabile di vantaggi: permette di recuperare capacità e utilità perdute, di accedere a beni primari limitando acquisti e spostamenti, di inquinare meno e risparmiare molto, e di  sperimentare una nuova dimensione entro la quale rivalutare il tempo e la soddisfazione del lavoro ben fatto, da condividere in modo solidale. Zero imballaggi, meno trasporti, niente emissioni. E soprattutto, libera l’individuo da molte delle sue dipendenze, regalandogli la consapevolezza, con conseguente gratificazione, di poter ridiventare autonomo, non più vincolato allo stipendio ed al supermercato. E anche creativo.

Fonte: ilfattoquotidiano.it

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