L’aspetto relazionale, pilastro di un condominio solidale, costituisce anche una preziosa risorsa per il territorio: si diventa attivi, non più passivi ricettori ma realizzatori di servizi, anche se non istituzionalizzati. Vi proponiamo la quinta ed ultima parte dell’intervista che Filippo Schillaci ha fatto ai membri del gruppo Ecosol di Fidenza, che stanno avviando un’esperienza di cohousing.

Luca – Secondo me la cosa che ha catalizzato di più è stata che fosse garantita la qualità del manufatto e che avesse questo taglio ecologico.

Fabio – Anche le cose su misura, le parti comuni, i costi contenuti…

Luca – Poi però è venuto via via arricchendosi…

Lucio – Abbiamo fatto tutto quel lavoro con le assemblee da cui è venuto fuori che alla fine fra tutte le componenti del progetto quella delle relazioni interne come livello di importanza è il 90%. E tutto il resto è il 10%. È stata una scoperta…

Luca – Questo obiettivamente è il limite che può avere un amministratore che fa edilizia popolare nel proporre una cosa del genere. Un gruppo così non lo puoi formulare a tavolino con dei nomi a caso. Una simile esperienza, secondo me, è ripetibile in altri contesti, con altre persone così come l’abbiamo vissuta noi. Ma è difficile che ci sia un intervento dall’alto che lo renda possibile. O nasce spontaneamente e l’amministratore è capace di individuarlo, lo avalla, lo favorisce, non lo ostacola ma che l’amministrazione lo faccia nascere, non lo so…

Fabio – Però ci sono altre esperienze in cui delle famiglie svolgono funzioni di intermediari, cioè di focalizzare il tipo di relazioni. In altre parole in un condominio comune tu vai lì con certe agevolazioni però hai questo compito che è il fondamentale aspetto relazionale. In ogni caso ci vuole una buona disponibilità di base per partire.

Luca – Soprattutto nel nostro gruppo più ristretto c’è anche quest’altra grossa consapevolezza che è implicita ma forse va esplicitata: che la famiglia in condizioni di mutuo aiuto riesca ad esprimere molta più energia e molta più potenzialità che non da sola. Cioè la famiglia da sola nel nostro contesto sociale è ormai sulla difensiva ed è presa per il collo e soffocata. In un contesto del genere invece riesce ad esprimere maggiore ospitalità, maggior disponibilità, quindi diventa una risorsa anche per il territorio.

Questi sono interventi che secondo noi – forse siamo presuntuosi – hanno una valenza positiva, anche economica, per il sociale. Perché, si faceva questo esempio, se noi saremo in grado di tenere i nostri anziani per qualche anno di più in casa e non metterli in un ospizio, questo per la pubblica amministrazione vuol dire soldi. Se qualcuno di noi ha dei problemi di salute – e alcuni di noi ce li hanno già – e c’è una rete di vicinato che fa quadrato e supporto, questo ha una valenza anche economica oltre che sociale. Quindi si diventa attivi sul territorio, non più passivi ricettori ma anche realizzatori di servizi, anche se non istituzionalizzati, questo è evidente.

Fulvia – Infatti l’assessorato provinciale ai servizi sociali ha colto subito questa cosa e ha accettato di darci una mano ad esempio a pagare l’affitto dell’appartamento sociale. Ha voluto mettere ‘il becco’ in una situazione così perché ha colto subito le potenzialità da questo punto di vista.

Luca – Non c’è paragone, anche in termini di bilancio economico, fra una situazione del genere e il dover loro accollarsi tutto quanto.

Lucio – È stato detto che in fondo è normale che ci siano delle famiglie che fanno questo tipo di investimento: economico ma che ha un ritorno di tipo direi quasi esclusivamente sociale. Qualche famiglia non ha bisogno di cambiar casa e starebbe bene anche dov’è. L’investimento in pratica è sul fatto di avere attorno delle famiglie che bene o male almeno sulla carta ti garantiscono una sicurezza sociale.

Fabio – È sulle relazioni costruttive.

Luca – Io credo che questo sia molto importante perché, sia per chi è di formazione più cattolica, sia per chi è di formazione più laica, toglie da quell’impegno per l’altro concepito come “io che posso aiuto gli altri”. Mette invece in gioco anche se stesso, ovvero: io so che lo sto facendo per gli altri ma anche per me. Cioè è un sano egoismo. Il fatto che: “o tutti o nessuno”, è secondo me un passaggio importante soprattutto oggi.

Io – Come dire che l’unica maniera intelligente di fare i propri interessi è fare gli interessi di tutti.

Luca – Esatto. E anche questo io credo che ci trovi tutti d’accordo. È questa logica che, nel momento in cui viene negata, porta al disastro che vediamo della lotta di tutti contro tutti, del “non posso fidarmi di nessuno”, del “non crederò mai a quello che mi dici”. Al doversi garantire in mille modi che poi non funzionano. Tante volte noi ci siam detti: io, quando avrò dei guai, che so, di salute o finanziari, mi fido più di un aiuto che potrò avere da loro che non da un’assicurazione che appena può non mi paga nulla. Quindi credo che alla fine la scoperta di tutti sia un po’ questa. È un rischio, certo, perché ogni patto ha un rischio, però alla fine è un rischio inferiore rispetto ai tanti patti fasulli fatti con le banche, con le assicurazioni, con i portoni blindati, che poi alla fine ci portano tutti contro tutti e ci fan stare solo male.

Fulvia – Sinceramente io sono poi anche abbastanza serena su questo perché penso che nessuno di noi abbia fatto delle scelte in base a infatuazioni. Sappiamo tutti benissimo che vivere insieme comporta dei rischi. Non è che io pensi che sarà l’eden, penso che sarà una cosa molto bella uscir di casa e trovare delle facce amiche.

Luca – Sì, credo che anche su questo ci sia una coscienza di tutti i partecipanti. Cioè che non c’è un’aspettativa ingenua su queste cose. Ed è importante anche questo.

Fulvia – Ho trovato insopportabile che una persona partecipi a dei percorsi comuni e che si senta tradita vedendoli non come qualcosa di cui essere partecipe ma come se tutti gli altri dovessero creare le condizioni perché lui stesse bene. Nella realtà invece secondo me non è così.

Io – Vorrei fare un’ultima domanda: nella progettazione avete posto l’accento anche su un’altra cosa: l’estetica, i valori estetici. Quanto questo è importante per voi e cosa significa? Cosa significa per voi vivere in un luogo bello?

Fulvia – Io dico sempre che un conto è la semplicità, un conto è lo squallore. Sono due cose diverse. Un posto semplice e bello va benissimo. Un casermone squallido è un altro paio di maniche. Io quando passo sull’autostrada e vedo quelle case terribili alla periferia di Bologna o di Milano mi chiedo: ma come fa uno a crescere e vivere bene lì? Per forza poi si droga. Tu rimandi al bambino che cresce lì un’immagine di sé che fa parte di questo casermone. Come dire che lui non è degno di avere una casa bella. Secondo me ci sono immagini e messaggi che arrivano, no?

Luca – Sì, direi anche che fa parte del comfort, del benessere psicologico, dell’equilibrio psicologico. Direi, pensando un po’ a tutti, che nessuno, dal punto di vista delle finiture, farà scelte particolarmente lussuose, ma tutti penso sceglieranno, nell’ambito del possibile, qualcosa che sia bello. Abbiamo dei limiti ovviamente, sia di portafoglio che dettati dalle condizioni del lotto. A me per esempio, di bello sarebbe piaciuto creare una corte, uno spazio chiuso, invece abbiamo dovuto creare uno spazio lineare. Per esempio, se ci fossero più realtà di questo genere, metterle vicine in un certo modo, creare… io li chiamo luoghi, non spazi.

La differenza estetica secondo me sta lì, di percezione. Dal mio punto di vista l’estetica, il bello sono legati al significato: una mia piccola filosofia che riesco ad applicare molto poco nella professione, perché non ho quasi mai una committenza di questo genere. Secondo me una cosa è percepita come bella quando noi ne sappiamo riconoscere il significato. Io faccio sempre questo esempio, anche quando parlo ai ragazzi a scuola: io posso avere in casa l’oggetto più kitsch del mondo, orrendo dal punto di vista estetico ma se quell’oggetto mi ricorda un episodio, una persona, una relazione, io posso dire che da un certo punto di vista è bello, mi fa star bene.

E la presunzione che ho in questo caso è che, per il processo partecipato che c’è stato e per la consapevolezza delle scelte fatte, non c’è stato nulla di casuale; quindi non so se poi il risultato sarà bello esteticamente ma che abbia un significato questo sì. Per fare un esempio, non so se il ballatoio sarà bello; cercheremo di farlo bello, nel senso più semplice e superficiale del termine, però so che avrà un significato.

Fulvia – Faremo delle scelte il più possibile uniformi in modo che non ci sia la sensazione del caos ma di una scelta ordinata, funzionale. Mi viene in mente come esempio il mio ufficio: è in un palazzo antico di Fidenza, un palazzo del ’600 in parte ristrutturato e in parte che fra un po’ ci crollerà in testa, con uffici molto ampi, molto alti. Nel mio ufficio siamo in tre, vicino alle pareti io ho un sacco di cose, dà un po’ l’idea del caos, però ci sono molte cose colorate. Entro invece in certi uffici di alcuni miei colleghi e vedo piazzata sulla parete una stampa del tutto casuale, magari ritagliata da un calendario vecchio. A me dà angoscia, non so come dire, perché…

Luca – È anonima.

Fulvia – Sì, è molto povero, non si è fatto nessun tipo di investimento su quello spazio, non l’hai letto, non lo vivi, cioè per te è il tuo dovere e basta, stai lì in ufficio quelle ore che ti toccano, punto.

Lucio – Una volta decisi tutti gli aspetti funzionali in assemblea una raccomandazione corale è stata: sì, bene tutto ciò però facciamolo che esteticamente sia carino.

Luca – Sì, prima mi hanno messo tutte le diversità da sistemare, poi mi hanno detto: oh, fallo bello, eh? Sugli aspetti estetici io sono molto debole dal punto di vista professionale. Secondo me però, ripeto, è stato tutto pensato, un po’ per voglia un po’ per obbligo perché nella committenza in questo caso c’è stato un processo di consapevolezza molto profondo sull’abitare.

Siamo andati a vedere Klimahouse a Bolzano, poi siamo andati a visitare altre case. Come utenza – adesso parlo come professionista – hanno maturato una consapevolezza estremamente maggiore rispetto alla media delle persone che vengono qua, si siedono e mi dicono: “io voglio la casa rustica” oppure alla prima seduta mi chiedono: “che camino ci starebbe bene secondo lei?”. Oppure vogliono scegliere le porte e i pavimenti e non si domandano nulla dal punto di vista degli impianti e dell’energia.

Qui è stato fatto un percorso completamente diverso, io mi sono trovato con una committenza estremamente più ‘sofisticata’ e quindi messo alla punta. Ho mirato qui al dare significato alle scelte: so argomentare le scelte che ho proposto sulla base delle necessità. Per me questo si lega al significato e per me diventa motivo estetico. Poi può essere condivisibile o meno questo. Può essere chiamato funzionalismo, non so. C’è questo rischio però non credo.

È trascorsa un’ora e mezza e la discussione si avvia a concludersi. Mi faccio dire ancora un po’ di cose su alcune scelte tecniche, come quella dei fornelli a induzione per le cucine, poi il discorso scivola verso altre esperienze associative che pongono in primo piano la dimensione solidale e comunitaria. Ci si sofferma su quella di Mondo Comunità e Famiglia. Ed è quest’ultimo discorso che suggerisce le considerazioni conclusive.

Fabio – C’è un’umanità numerosa che non appare ma che ha delle potenzialità grandi per cambiare quello ‘schifìo’ che invece appare. Non viene percepita ma c’è. Ed è un sacco di gente. Vi ricordate che appena abbiamo buttato lì l’ipotesi c’erano 20 o 25 famiglie? Poi alcune per diverse ragioni non hanno proseguito ma vuol dire che c’è un bisogno, una disponibilità che sono grandi.

Luca – C’è bisogno anche di contagiarsi reciprocamente secondo me. Cioè: tante idee, poi uno parte e partono anche gli altri… ci vuole la tenacia… poi accade che tutti i processi partecipati e dal basso siano lunghi, non c’è niente da fare. Ma ne vale la pena.

Fonte: Il Cambiamento

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