Ve li ricordate i cani “pericolosi” del ministro Sirchia? Non bastavano ancora; adesso sono venuti fuori anche gli alberi “pericolosi”. Se n’è accorto il Comune di Milano nella perspicace persona di tale assessore Landi che nel luglio 2010 ha deciso l’abbattimento di 12000 alberi “pericolosi per la salute” in quanto “allergenici”[1]. Alberi come ontano, betulla, carpino, nocciolo, cipresso, olivo che sono in testa alla classifica del «“pericolo” verde»; e poi aceri, platani, querce, salici, olmi. Tutti «alberi a rischio», alberi che convivono con l’uomo da millenni, da sempre, ma di cui solo ora, misteriosamente, emerge la natura malefica. «Puntiamo al verde sicuro» rassicura l’assessore. E motivi di allarme in effetti ne ha: le allergie sono negli ultimi anni in costante aumento, soprattutto nelle città. Motivo? Il miscuglio di polline e smog che costituisce «un cocktail velenosissimo». Tuttavia qualche perplessità fa capolino fra cotante certezze: le allergie sono aumentate, ma non gli alberi. Dunque non rimane che sospettare che sia aumentato l’altro ingrediente del cocktail, lo smog e che sia questo la causa dell’aumento delle allergie. Scusi assessore, e se ci ponessimo il problema di eliminare il “pericolo grigio”, cioè lo smog appunto e puntare all’ “aria sicura”? Ci vuol poco a immaginarsi la risposta. “Eliminare lo smog? E come si fa? Che ne sarebbe della crescita economica, del benessere, del progresso? No, non se ne parla neppure”. E via alle motoseghe.
Viene il sospetto che il vero problema non siano le allergie ma una nuova, insidiosa malattia che serpeggia fra quelle stesse strade che quattro secoli fa videro dilagare la ben nota peste e che si affianca all’ormai annoso serpeggiare delle più varie forme di zoofobia; non ha ancora un nome il nuovo malanno. Vogliamo ad esempio chiamarlo florofobia?
 
Percorro in automobile le strade dei dintorni di Caccamo sulle Madonie, trascorre il tempo e trascorrono i chilometri, e io sono sempre più preso da un senso di profonda desolazione. Mi guardo intorno ma lo sguardo non trova nel paesaggio nulla cui aggrapparsi. E’ vero che non trova nemmeno nulla che lo respinga, come invece accade fra le brutture di certe sordide periferie urbane, ma il punto è proprio questo: non trova niente. Ci metto un po’ a capire l’origine di quel vuoto: ovunque si guardi, a perdita d’occhio, monti e colli, pendii e valli sono minuziosamente privi di alberi, tenacemente spogli.
Percorro a piedi i sentieri della foresta dei Peloritani. Anche questi monti hanno conosciuto, fra la foresta che li popola oggi e quella originaria che li ricopriva in secoli dimenticati, la fase del vuoto, quando il loro legname serviva alle “esigenze” dell’arsenale militare di Messina (perché quello che oggi stanno facendo in Amazzonia noi lo abbiamo fatto con altrettanta perseverante furia nei secoli scorsi in Europa). Poi, alla fine dell’800, sono venute le prime piantumazioni, e poi altre e altre, e la foresta è rinata. Qui lo sguardo non ha bisogno di cercare nulla perché ovunque si volga trova, e così l’olfatto e gli altri sensi. Questo luogo ha una sua personalità, una sua pienezza, ricchezza, bellezza, un suo molteplice significato, ha tutto ciò insomma che fa di esso quel luogo non sostituibile con nessun altro.
La differenza con i monti di Caccamo? Una sola: gli alberi.
 
Ho già scritto molto e non ho ancora nominato i libri di Anna Cassarino di cui questa vuol essere la recensione. Eppure non ho fatto altro che parlarvi di essi, della loro necessità. Due libri in impeccabile equilibrio sul delicato confine fra saggistica e narrativa i cui protagonisti, silenziosi e, secondo la nostra percezione del tempo, immobili, sono loro, i più grandi esseri viventi della Terra, quelli che le danno un volto: gli alberi.
 
Il primo, Alberi monumentali d’Italia, è un libro di biografie e ritratti. Non di uomini bensì di alberi appunto; grandi, secolari, a volte millenari alberi che, sopravvissuti alle sempre più massiccia devastazione del territorio, sorgono ancora in numerosi luoghi, notissimi alcuni, pressoché sconosciuti la maggior parte. Alle biografie sono destinate le parole, ai ritratti soffusi e magistrali acquarelli realizzati dalla stessa autrice.
Camminare fra i giganteschi ulivi che si ergono nelle campagne attorno a Rosarno in Calabria o sollevare lo sguardo verso le chiome dei castagni di Sant’Alfio e Mascali in Sicilia, consapevoli di essere di fronte a esseri che hanno attraversato i secoli o i millenni, è più che compiere un’esperienza naturalistica, è entrare a contatto con la profondità del tempo; un tempo il cui scorrere sembra non avere l’effetto di consunzione che ha su noi animali ma al contrario, nota l’autrice parlando dell’olivo di Pozzilli, sembra consolidare negli alberi l’imponenza, fortificare l’ulteriore durevolezza: «Quando ferite e mutilazioni offendono gravemente l’aspetto e la salute animale, negli alberi in cui si rinnovano tante sostanze utili per curare ogni genere di malattia, spesso la accrescono.»
Il secondo libro, Alberi della civiltà, ci racconta le storie dei rapporti che le innumerevoli specie arboree della Terra ebbero e, spesso, hanno ancora con l’uomo. “Prontuario degli alberi che difenderanno il nostro futuro” dice il sottotitolo ma davvero la parola “prontuario” è ben lontana dal descrivere un libro che ha in comune col precedente la spontanea unione fra ricchezza di informazioni e gusto affabulatorio, tale da rendere la lettura suggestiva pur lasciandoci con i piedi ben piantati sul terreno della realtà. Sembra, in entrambe le opere, che l’autrice ci stia raccontando le favole degli alberi, ce li sta narrando invece così come sono e in ciò che essi hanno rappresentato nei secoli per gli uomini che hanno saputo vivere con essi e, spesso di essi. Questo ricco insieme di relazioni vitali, che percorre l’intera storia umana, è il tema portante di entrambi i testi. A volte però l’autrice se ne dimentica, come nella suggestiva pagina dedicata all’albero delle farfalle dove la narrazione scivola sulla storia delle falene la cui vita e la cui morte si svolge intorno ad esso; ancora una volta non storie di fantasia ma la vera vita delle vere falene intorno ai veri alberi delle farfalle.
Il fondersi di suggestione e dato oggettivo assume a volte toni particolarmente felici, come nella pagina dedicata alla Roverella delle Checche (nome locale delle gazze), in provincia di Siena, che «un secolo dopo l’altro, si è spinta sempre più lontana nello spazio per poi ricadere di nuovo verso terra e toccarla con le punte fini» mentre, anno dopo anno, «migliaia di minuscole creature dalla brevissima esistenza, la abitano e la percorrono come fosse lei sola il mondo intero, il tempo infinito» e che «nella morte sono riassorbite da lei e in lei nascono nuove, una stagione dopo l’altra».
La stessa fascinazione che viene dagli individui più antichi è emanata dalle specie che, in quanto tali, sono di antichità ancora maggiore. Anche botanica e conoscenze di tecniche tradizionali legate agli usi sostenibili degli alberi in queste pagine si fondono senza soluzione di continuità e senza quasi che il lettore se ne accorga. E l’una e le altre si uniscono a un incessante fondo di contemplazione estetica, di ammirazione rispettosa ed entusiasta. Del nocciolo l’autrice ci racconta che “zampilla fuori dal terreno come una fontana”, e allo stesso tempo ci dà notizie sulla sua attrazione per l’acqua, sulla stagione di fioritura (l’inverno) e sugli usi dei suoi frutti. A proposito del faggio ci parla della sua fascia climatica, dell’uso delle foglie per imbottire i materassi dei montanari, o per ricoprire i fondali degli stagni artificiali o ancora per conservare il ghiaccio; torna poi all’albero in sé: alla fioritura, ai frutti (le faggiole), descrive la simbiosi delle radici con i funghi porcini, conclude con le caratteristiche del legno. Dei «severi tassi» ci descrive i molteplici colori di fiori e bacche, attraenti per api, farfalle e uccelli, e le proprietà anticancro di quel veleno che valse loro l’appellativo di “alberi della morte” e che ne provocò lo scriteriato sterminio ad opera degli allevatori che temevano per mandrie e greggi; ci dice infine della loro lunga vita che, se non disturbati, può superare i 2000 anni. Dell’argan, che è per i popoli della savana ciò che l’olivo è per i mediterranei, ci racconta come le capre gli diano la scalata per raggiungere le foglie e i frutti, e ci descrive le proprietà dell’olio che si ricava dai suoi semi.
E non mancano (come possono mancare?) i momenti di indignazione per i troppi atti sconsiderati che imbrattano il fare umano nei confronti dei maggiori rappresentanti della vita vegetale. E’ il caso del «modo irresponsabile e barbaro con cui spesso i platani vengono mutilati [e che] li riduce a dei mostri e li indebolisce, facendoli ammalare e morire rapidamente»; una sorte che accomuna i platani «sacri in Oriente, piantati vicini a templi e fonti» a molte altre specie i cui rami principali vediamo spesso selvaggiamente mozzati in omaggio a non si sa bene quale logica che non sia quella del più ottuso e fine a se stesso dominio su tutto ciò che è “altro da sé”. L’immagine del “segare il ramo su cui si è seduti”, oggi più che mai ha valore non solo metaforico ma anche rigidamente letterale. Perché è sul regno vegetale che noi, noi animali, poggiamo i piedi, sono le piante che ci reggono in grembo. Distruggerle è il modo più efficiente e facile di suicidarsi. «Qualsiasi stupido è capace di distruggere gli alberi; non possono né difendersi né scappare» scriveva il naturalista John Muir. Il numero di alberi abbattuti è dunque l’indice più significativo del grado di stupidità presente fra gli esseri umani.
 
 
Anna Cassarino, Alberi monumentali d’Italia, vita e virtù dei più illustri personaggi del popolo vegetale, e Alberi della civiltà, prontuario degli alberi che difenderanno il nostro futuro, Edizioni A Scuola dagli Alberi, 2011 (www.ascuoladaglialberi.net).
 
 
Fonte: Il Ribelle

 



[1]           Corriere della Sera, 5 luglio 2010.
 

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