Quale fratellanza e quale cittadinanza c’è da praticare per tutelare l’acqua, l’aria, la terra, la pace e le relazioni sociali ed economiche sostenibili nella consapevolezza di un ineluttabile destino comune per tutti i popoli del mondo?

Quale qualità della vita, quale futuro abbiamo come cittadini, operatori sociali, operai, giovani se intossichiamo il pianeta con una logica produttiva distruttiva, con prodotti che servono solo al consumo insostenibile di risorse (mite? Quale futuro abbiamo se in Campania si chiudono le fabbriche che servono, quelle di autobus per la mobilità sociale, se non si valorizza l’agricoltura che ci fa vivere, quella sociale, biologica e della filiera corta, se non si accoglie il mondo intero con il turismo responsabile e la salvaguardia dei parchi e delle coste, se si costruisce senza regole e se sotto le costruzioni più brutte al mondo si mettono i rifiuti più tossici del pianeta, fatti arrivare apposta dal civilissimo nord.

Quale speranza potranno avere i giovani se restiamo silenti di fronte alla violazione dei diritti civili in fabbrica e dei diritti del lavoro nel mondo sociale, alla finanziarizzazione selvaggia senza regole etiche del mondo produttivo e alla distruzione della natura. Abbiamo capito che la questione del lavoro – della dignità del lavoro e del diritto a un reddito, la questione sociale, dei servizi universalistici da garantire ai cittadini, bambini, giovani e anziani – e la questione ambientale sono la stessa questione. Riguardano, assieme, la democrazia, il patto di cittadinanza non fra uguali, ma fra deboli e forti, fra esclusi ed inclusi, fra liberi e carcerati, fra occupati e disoccupati, che i nostri padri costituenti e noi abbiamo sottoscritto.

Oggi c’è, ritorna terribile in forme nuove, una pesante esclusione ed una insopportabile immobilità sociale. I figli dei lavoratori monoreddito, oggi, sono di fatto ed irrimediabilmente esclusi da un futuro di emancipazione e di conoscenza. Oltre la retorica dei sistemi di relazioni di potere, c’è solo una rudimentale alfabetizzazione della bella scuola elementare che ancora abbiamo. Poi l’ergastolo sociale della esclusione per censo. Escludere, Escludere, Escludere, Consumare, Consumare, Consumare. Fare profitto, profitto, profitto in un modello di crescita insostenibile. Altro che PIL. Ascoltiamo almeno l’ONU e la OMS sugli Indici di Sviluppo Umano. Chiediamoci cosa produrre, per chi, con quali effetti, e anche la riconversione industriale – che gli operai vogliono perché ne vedono per primi la necessità – può essere una grande opportunità di lavoro, di ricerca, di formazione e di liberazione per tutti.

Non c’entra il posto fisso. Il punto è il reddito certo anche nel processo di formazione e nella riconversione. Con quale motivazione e quale spirito un ingegnere si dedicherebbe ad un nuovo modello/contenuto produttivo se, nel farlo, venisse sospeso il suo reddito? Con quale animo un operatore sociale deve lavorare senza percepire, per mesi, uno stipendio già misero, affianco a chi è più fragile su questa terra? Il punto è un reddito che assicuri cittadinanza anche nella inevitabile ristrutturazione e ammodernamento dei servizi e del ciclo produttivo. Ma un ammodernamento senza distruzione. La globalizzazione degli investimenti e della ricerca della forza lavoro, senza una adeguata internazionalizzazione dei diritti civili e sociali, economici e politici, produce, di fatto, muri protezionistici ed ideologici – altro che liberismo senza frontiere – e zone franche di democrazia, una crisi strutturale della coesione internazionale dei popoli per una insostenibile, sempre più ineguale, distribuzione di ricchezza materiale ed immateriale. Le radici delle guerre stanno qui.

Il novecento ci ha detto una grande bugia. I diritti sociali, civili, politici ed economici non sono divisibili. Ce lo hanno insegnato due primavere, quella di Praga e quella di Tunisi, dei gelsomini. E i diritti devono anche essere effettivamente esigibili, come dice la Carta Sociale Europea, l’Europa sociale che vogliamo. Dove abbiamo sbagliato? Una domanda per tutti, uomini e donne, credenti e non credenti, (…) per riacciuffare il filo della lotta decisiva (…) per “acciuffare” la luna dietro i monti di Lenola, cosi scriveva un saggio ad un altro saggio, per il suo novantaseiesimo compleanno. C’è bisogno di uno sguardo nuovo. Un nuovo modo di guardare le cose. Osservare la crisi economica strutturale dal punto di vista degli esclusi non serve a difendere un interesse solo di parte. Serve ad avere uno sguardo giusto che possa garantire un nuovo modello di vita anche per chi è rinchiuso nella sua fortezza di potere e di ricchezza.

Lo sguardo dell’ultimo — l’idea di giustizia e di economia del povero e del disoccupato, la lentezza del tempo vissuta dalle comunità del mondo etologicamente ed ecologicamente equilibrate, la funzione delle foreste vista dall’Africa, la necessità di salvaguardare i ghiacciai vista dai poli del pianeta, i corsi d’acqua da salvaguardare e proteggere nei loro alvei naturali visti dalla riva di quegli stessi fiumi della terra, il sistema urbanisticoarchitettonico delle città e dei quartieri visto dal disabile, dalla sua esigenza di mobilità, la giustizia vista dalla cellainsostenibile, inumana e disperante della cella di Poggioreale – è l’orizzonte di senso giusto per tutti, è poter liberare dalla solitudine e dalla cecità dei consumi distruttivi anche i ceti abbienti e potenti, le loro famiglie, i loro figli. Uno sguardo nuovo dal punto di vista dei fragili assicura qualità di mobilità, di produttività, di comunicazione, di socialità e di evoluzione equilibrata anche ai forti.

Un nuovo modello di sviluppo può rendere felicità anche ai distruttori/consumatori di risorse che non si accorgono del baratro dinanzi al loro futuro, della infelicità dei loro sistemi relazionali, della insostenibilità della loro stessa vita. Serve un nuovo sguardo per leggere la crisi economica strutturale come fisiologica in questo modello di sviluppo, artificiale e finanziario, e lo stato sociale come principio regolativo generale della convivenza naturale non come azione risarcitoria della crescita distruttiva. Bisogna esattamente rovesciare il falso paradigma liberista per cui la libertà dell’economia senza regole e senza interventi del potere politico e dello Stato, alla lunga, serve anche ai poveri e agli operai, con una nuova proposta ideale, un nuovo racconto del mondo, per cui la protezione della giustizia re-distributiva, dell’ambiente e delle risorse finite del pianeta, la dignità del lavoro, in una forte democrazia partecipata, la indivisibilità e la effettiva esigibilità dei diritti, anche a breve, fa più bene anche ai ricchi, agli imprenditori e ai loro figli, a tutte le comunità del mondo.

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A partire dal sogno di acciuffare la luna e dalla esigenza di rispondere alle grandi domande, abbiamo cominciato a fare la nostra parte nelle buone pratiche e nelle piccole risposte. Abbiamo promosso nella sua definizione giuridica e nella organizzazione operativa la FATTORIA SOCIALE1. La Campania delle tanti contraddizioni e dei tanti ritardi è prima nel Mezzogiorno e nel Paese in questo campo. Quasi nessuno lo sa. Un programma integrato territoriale di impronta ecologica sostenibile per la promozione dell’agricoltura sociale Attività agricole multifunzionali ed attività zootecniche per favorire tutti i fattori di sviluppo locale, promuovere le filiere corte del commercio, i prodotti biologici e naturali, le risorse tipiche del territorio. Attività produttive per rivalutare mestieri antichi nella conoscenza e nei saperi moderni. Far emancipare i giovani dalle fatiche fisiche di un tempo e farli appassionare ad una produzione tradizionale ed innovativa alla base del futuro delle comunità locali, nel rispetto nella valorizzazione del genius loti. E fare anche inclusione perché le disabilità si affrontano alla radice promuovendo percorsi personalizzati in veri processi di autonomia. Una rivoluzione culturale nel Mezzogiorno, per una decrescita felice2 del Mezzogiorno e del Mediterraneo. Abbiamo dimostrato che è possibile.

Tanti comuni hanno siglato protocolli di intesa ed accordi di programma. Soprattutto sono esperienze ripetibili e generalizzatili. I moduli e le imprese di fattoria sociale possono essere rurali e possono riqualificare anche le grandi aree urbane. Insomma un modello di buona pratica su cui serve una attenzione europea anche per ragionare sullo scambio di saperi nel Mediterraneo di pace che vogliamo costruire. Abbiamo promosso, poi, nell’ambito dei programmi di fattorie sociali anche il primo PARCO ETOLOGICO3 del Mezzogiorno. Il Parco etologico nasce e si realizza come programma di costruzione e di attivazione di un canile sanitario e di un canile rifugio per l’accoglienza dei cani d’affezione abbandonati e/o randagi. Il modello di riferimento è una struttura di agorà zooantropologica che, nell’ambito della fattoria sociale, favorisce il rapporto uomo-natura-animale4. Il parco etologico può accogliere anche altri animali promuovendo la funzione della stalla produttiva contadina che favorisce il ciclo armonioso della vita e dell’ambiente senza fare rifiuti tossici e utilizzando i doni naturali degli animali, dal latte alla compagnia. Anche il parco promuove inclusione per i disabili.

In una logica naturale di convivenza e di solidarietà attiva, il distretto integrato territoriale delle fattorie e dei parchi raggiunge rapidamente anche l’obiettivo dell’esclusione sociale uguale a zero.

1 Cfr. La Fattoria Sociale SCHEDA e PROGETTO
2 Cfr. La decrescita non è la riduzione quantitativa della produzione, non è la recessione, e non è nemmeno la recessione dei consumi per ragioni etiche, perché la rinuncia implica una valutazione positiva di ciò a cui si rinuncia. La decrescita è il rifiuto razionale di ciò che non serve. (M. Pallante, Meno è meglio – Decrescere per progredire, 2011)
3 Cfr. Il Parco Etologico SCHEDA e PROGETTO
4 R. Marchesini, La Scuola di Interazione Uomo-Animale SIDA, riconosciuta da CSEN – settore cinofilia, Ente Nazionale affiliato al
CONI.

Fonte: Federazione Internazionale Città Sociale, FICS

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