l debito pubblico non è un problema di cui è stata sottovalutata la gravità. È il pilastro su cui si fonda la crescita nell’attuale fase storica. È indispensabile per continuare a far crescere la produzione di merci. È una scelta consapevolmente perseguita con una totale unità d’intenti dai governi di destra e di sinistra in tutti i paesi industrializzati.

Trovate qui e di seguito il manifesto-appello (anche in inglese, tedesco, francese e spagnolo) che riassume le posizioni a riguardo del Movimento per la Decrescita Felice.

Debiti pubblici, crisi economica e decrescita felice

Sentinella, quanto resta della notte? Isaia 21,11

Analisi della situazione e premesse

Il debito pubblico non è un problema di cui è stata sottovalutata la gravità. È il pilastro su cui si fonda la crescita nell’attuale fase storica. È indispensabile per continuare a far crescere la produzione di merci. È una scelta consapevolmente perseguita con una totale unità d’intenti dai governi di destra e di sinistra in tutti i paesi industrializzati.

Il mito della crescita infinita a debito. Le speculazioni sui titoli pubblici degli Stati più indebitati avrebbero dovuto da tempo suscitare una domanda che tuttavia non è stata mai posta: come mai negli ultimi anni tutti i paesi industrializzati hanno accumulato debiti pubblici sempre più consistenti, fino a raggiungere nel 2010 valori che vanno da un minimo dell’80% del prodotto interno lordo nel Regno Unito al 225,8% in Giappone? Nell’Eurozona, nel corso del 2010 il rapporto debito/PIL è salito dal 79,3 all’85,1%. Eppure il Patto di stabilità firmato dai paesi dell’Unione Europea nel 1999 fissava al 60% la soglia massima di questo rapporto. E inoltre: perché gli Stati e le amministrazioni locali spendono sistematicamente cifre superiori ai loro introiti? Perché il sistema bancario induce le famiglie a spendere cifre superiori ai loro redditi? La risposta è intuitiva: perché la sovrapproduzione di merci ha raggiunto un livello tale che se non si acquistasse a debito, crescerebbe la quantità di merci invendute e si scatenerebbe una crisi in grado di distruggere il sistema economico e produttivo fondato sulla crescita infinita del PIL.

Proprio nel tentativo di far ripartire la crescita ed aumentare il PIL, negli ultimi anni in Italia è stata finanziata la rottamazione delle automobili, sono state concesse agevolazioni fiscali per la costruzione di nuove case, sono stati dati incentivi all’installazione di impianti a fonti rinnovabili senza porre vincoli a favore degli autoproduttori né della tutela ambientale, è stata deliberata la costruzione di opere pubbliche tanto costose quanto inutili. Ma gli incrementi della spesa pubblica in deficit non hanno riavviato la crescita, come del resto in tutti gli altri paesi industrializzati, né hanno diminuito la percentuale dei disoccupati, che anzi è aumentata. Insomma, abbiamo speso denaro pubblico, abbiamo aumentato il debito e non abbiamo ottenuto nulla.

Per quale ragione gli stimoli forniti alla ripresa economica attraverso la spesa pubblica non hanno dato i risultati attesi?

Perché nei paesi industrializzati lo sviluppo tecnologico ha determinato un eccesso di capacità produttiva che cresce di anno in anno. Macchinari sempre più potenti producono in tempi sempre più brevi quantità sempre maggiori di merci con un’incidenza sempre minore di lavoro umano per unità di prodotto. Per questo la disoccupazione aumenta invece di diminuire. Inoltre queste tecnologie sono molto costose e i macchinari non possono rimanere fermi, perché ne deriverebbero forti danni economici in termini di ammortamento dei capitali e di mancati guadagni. Devono lavorare a pieno regime e tutto ciò che producono deve essere acquistato anche se non ce n’è bisogno. Quindi le tecnologie accrescono l’offerta di merci in misura superiore alla crescita della domanda e ciò comporta una diminuzione dell’occupazione, la diminuzione dell’occupazione riduce ulteriormente la domanda. Perciò l’unico modo per incrementare la domanda è l’indebitamentoLa crescita non è la soluzione. È il problema!

Un’incidenza determinante sull’aumento dei debiti pubblici hanno avuto i costi delle grandi opere pubbliche, deliberate con sempre maggiore frequenza dalle amministrazioni statali centrali e periferiche

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non per rispondere a reali necessità, ma con la motivazione esplicita di rilanciare l’economia e creare occupazione. Le grandi opere hanno quasi sempre un impatto ambientale devastante e possono essere realizzate soltanto da grandi aziende che così suggellano la loro alleanza strategica col potere politico che le delibera. Un’alleanza che accomuna tutte le varianti della destra e della sinistra e ha attenuato fino a renderle irrilevanti le loro differenze culturali e di prospettiva politica. Una sorta di ossessione maniacale infarcisce di progetti faraonici, cervellotici e inutili i programmi elettorali di tutti i partiti a ogni livello istituzionale. Più sono grandi, più investimenti richiedono, maggiore è il contributo che si ritiene possano dare alla crescita economica, più alte sono le cifre che possono transitare illegalmente tra i vincitori degli appalti e i committenti. Una indecenza che si ripete ogni volta in occasione di olimpiadi estive e invernali, campionati di calcio, di nuoto, di tennis, esposizioni universali, centenari, giubilei, conferenze internazionali. Le grandi opere che si realizzano in queste occasioni hanno costi altissimi, vengono usate per poche settimane per poi rimanere abbandonate al degrado e all’incuria, non ripagano nemmeno in minima parte le loro spese, riempiono le amministrazioni pubbliche di debiti per più generazioni, le obbligano a contrarre altri debiti per pagare gli interessi sui debiti contratti, le costringono a fare cassa cedendo la gestione dei servizi pubblici ad aziende multinazionali. Il debito pubblico della Grecia, su cui si è scatenata la speculazione finanziaria, ha cominciato a impennarsi in conseguenza delle spese effettuate per le Olimpiadi di Atene del 2004. Se Torino è la città più indebitata d’Italia, lo deve alle spese in deficit sotenute per le Olimpiadi invernali del 2006.

Un ulteriore contributo sostanziale alla crescita dei debiti pubblici è stato dato dall’aumento delle spese militari, che nel corso del novecento hanno sempre avuto un ruolo decisivo nell’assorbire gli eccessi di capacità produttiva rispetto alla domanda espressa autonomamente dal mercato. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno iniziato ad agire con una logica imperiale, rafforzando sistematicamente la loro presenza militare in tutto il mondo, in particolare nello scacchiere medio-orientale, per tenere sotto controllo i giacimenti di petrolio di cui il loro apparato economico e produttivo ha bisogno per continuare a crescere. L’aumento delle spese a carico dei bilanci statali che ne è derivato, ha progressivamente ridotto i vantaggi economici apportati dal controllo dei flussi di petrolio, cominciando a delineare una situazione che presenta inquietanti analogie con quella che portò alla caduta dell’impero romano, quando le spese militari per tenere sotto controllo le province cominciarono ad essere superiori al valore delle risorse che se ne ricavavano.

MANIFESTO Per bloccare la spirale dei debiti pubblici nei paesi industrializzati bisogna prendere immediatamente tre decisioni: sospendere le grandi opere pubbliche deliberate in deficit, ridurre drasticamente le spese militari, ridurre drasticamente i costi della politica. In realtà, in base alle considerazioni svolte si tratta di intervenire su tre aspetti di uno stesso problema. Non bisogna essere particolarmente intuitivi per capire che il sistema di potere fondato sull’alleanza strategica tra partiti politici otto- novecenteschi e grandi imprese non prenderà queste decisioni perché ne verrebbe travolto e nessun potere si fa da parte se non è costretto da una forza maggiore alla sua. Detto questo, a livello teorico si potrebbe tuttavia obbiettare che se si tagliasse in maniera così forte la domanda pubblica si ridurrebbe il debito riducendo le spese, ma si ridurrebbe anche il prodotto interno lordo e diminuirebbe il gettito fiscale, per cui il problema si riproporrebbe con l’aggravante di bloccare rilevanti settori produttivi e di far crescere ulteriormente il numero dei disoccupati. Questo accadrebbe se non fosse possibile individuare possibilità alternative di lavoro e occupazione. Invece occorre procedere attivando una

decrescita selettiva.

La scelta dei settori produttivi da rilanciare. Per riuscire a ridurre, o quanto meno a non accrescere il debito pubblico, aumentando al contempo l’occupazione, bisogna potenziare le attività produttive nei settori in cui i costi di investimento si ammortizzano con i risparmi sui costi di gestione che consentono di ottenere. Per individuare questi settori occorre uscire da una concezione dell’economia come attività autoreferenziale basata sulla dinamica tra la domanda e l’offerta, e intervenire nelle fasi in cui la produzione e i consumi impattano con gli ecosistemi terrestri: nel prelievo delle risorse, nei processi produttivi che le trasformano in merci e beni, nella riduzione delle merci e dei beni in rifiuti, con l’obbiettivo di sviluppare tecnologie che riducono gli sprechi e le inefficienze: ovvero consentono di ridurre al minimo il prelievo di risorse, le immissioni di sostanze nocive nei cicli biochimici e la

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produzione di rifiuti. Anziché nella costruzione di grandi opere occorre investire nella ristrutturazione energetica degli edifici esistenti (adottando subito e andando oltre la Direttiva 2010/31/CE), nella riduzione delle perdite nelle reti idriche e nel recupero delle acque piovane, nella manutenzione degli edifici pubblici, nel ripristino della bellezza dei paesaggi deturpati negli scorsi decenni da un’edilizia volgare e invadente, nel potenziamento dei trasporti pubblici locali, nella rinaturalizzazione dei quartieri urbani dove insistono edifici industriali o palazzi abbandonati (come si sta facendo a Detroit), nello sviluppo delle fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo, nel recupero e riciclaggio dei materiali contenuti negli oggetti dismessi, nell’agricoltura tradizionale di prossimità, nel commercio locale, nell’accorciamento delle filiere tra i produttori e gli acquirenti. Oltre a creare più occupazione delle grandi opere, a differenza delle grandi opere queste attività hanno un’utilità intrinseca e ripagano i costi d’investimento con la riduzione degli sprechi e dei consumi di materie prime, per cui non fanno crescere i debiti pubblici, non richiedono tecnologie potenti ma evolute e il recupero di tecniche artigianali tradizionali, non possono essere svolte da aziende multinazionali che operano sui mercati mondiali, ma solo da piccole e medie imprese, artigiani specializzati e studi tecnici radicati sul territorio, in grado di penetrare in tutte le pieghe del sistema, di conoscere tutte le realtà, anche di dimensioni limitate, che necessitano di interventi di ristrutturazione e di realizzarli con costi di investimento e tempi di rientro ridotti, finanziabili da istituti di credito locali.

Valorizzazione del territorio e dell’economia locale La saldatura tra i piccoli contadini, i commercianti al minuto, le piccole e medie aziende, gli artigiani e i professionisti radicati nel territorio in cui vivono, con i movimenti che si oppongono alla realizzazione delle grandi opere e alla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, può avvenire soltanto in un contesto di autoemarginazione dalla globalizzazione e rivalutazione delle economie locali, con l’obbiettivo di ridurre al minimo la dipendenza dalle fonti fossili e realizzare la maggiore autosufficienza produttiva in base al principio di sussidiarietà: produzione e commercializzazione negli ambiti territoriali più ristretti di quanto è possibile e conveniente, ampliando progressivamente gli ambiti territoriali di approvvigionamento di quanto non si può o non conviene produrre negli ambiti più ristretti. Questa scelta, che può essere fatta solo su base volontaria, è finalizzata a raggiungere la massima autonomia nella produzione alimentare, in quella energetica e nelle produzioni necessarie a soddisfare i bisogni fondamentali: edilizia, abbigliamento, arredamento, utensileria, attività artigianali, riparazioni e manutenzioni. La riduzione al minimo della dipendenza dalle fonti fossili implica l’abbandono dell’agricoltura chimica e lo sviluppo dell’agricoltura biologica, la valorizzazione della stagionalità dei prodotti, la riunificazione di agricoltura e allevamento, l’accorciamento delle filiere e la riduzione delle intermediazioni commerciali tra produttori e acquirenti, la diffusione delle fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo con scambio delle eccedenze in piccole reti collegate tra loro sul modello di internet. L’aumento dei prezzi delle fonti fossili e la riduzione progressiva della loro disponibilità renderà sempre più conveniente l’agricoltura biologica, che dovrà comunque essere implementata dalle maggiori conoscenze scientifiche acquisite negli ultimi decenni. L’abbandono della chimica in agricoltura richiederà un aumento del numero di occupati nelle attività agricole e un controesodo di quote non marginali di popolazione dalle città alle campagne. In un’economia globalizzata le piccole e medie aziende possono trovare spazio solo nella produzione di semilavorati e componenti per le aziende che operano sul mercato mondiale (l’indotto) o nella produzione di prodotti finiti per conto di grandi marchi che operano sul mercato mondiale (contoterziste). Solo liberandosi dai vincoli della globalizzazione e producendo per il mercato locale in cui inserite, solo offrendo prodotti finali ad acquirenti del territorio in cui operano, queste aziende possono valorizzare la ricchezza della loro professionalità, della loro creatività e della loro esperienza. Pressoché tutti gli oggetti e i servizi necessari a una vita in linea con gli standard di benessere che caratterizzano i paesi industrializzati possono essere offerti dalle piccole e medie aziende distribuite sul territorio, che nella solo prospettiva devastante della globalizzazione possono essere considerate fattore di debolezza, mentre invece nel contesto di una politica economica finalizzata a consolidare l’autosufficienza e la resilienza delle realtà locali costituiscono uno straordinario punto di forza.

Pensare al medio periodo. Tutti i lavori di efficientamento energetico comportano una riduzione del consumo di risorse a parità di prestazioni, per cui, pur facendo crescere il prodotto interno lordo nell’anno in cui vengono eseguiti, in tutti gli anni successivi lo fanno decrescere. La coibentazione di un

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edificio per ridurre le dispersioni termiche fa crescere il PIL nell’anno in cui viene realizzata, ma da quell’anno in avanti lo fa decrescere attraverso la riduzione degli sprechi che consente di ottenere. La riduzione degli sprechi è il pre-requisito che consente di soddisfare il fabbisogno residuo con le fonti rinnovabili. Anche le fonti rinnovabili fanno crescere il prodotto interno lordo nell’anno in cui vengono installate, ma da quel momento in avanti lo fanno decrescere con la riduzione dei consumi di fonti fossili. Maggiore è l’efficienza della coibentazione e minori sono i consumi, minori sono i consumi e minore è la potenza energetica in fonti rinnovabili necessaria a soddisfarli. Quanto maggiore è l’efficienza energetica tanto minori sono i consumi e la potenza necessaria a soddisfarli, tanto maggiore sarà la decrescita selettiva del prodotto interno lordo. In questo contesto la decrescita diventa non solo la misura del benessere e del miglioramento della qualità della vita, ma anche una prospettiva in grado di creare un’occupazione qualificata, che paga i suoi costi con i risparmi economici conseguenti alla riduzione dei consumi di fonti fossili che consente di ottenere. La decrescita selettiva del prodotto interno lordo è in grado di offrire uno stimolo decisivo a superare la crisi economica e la crisi ambientale senza far crescere il debito pubblico. Ovvero di ridurre i debiti pubblici senza deprimere le attività economiche.

Politica e decrescita

Per sostenere una politica economica e industriale fondata sulla decrescita selettiva degli sprechi e delle inefficienze occorre una nuova leva di politici, antropologicamente diversi da quelli che si sono formati nei partiti di destra e di sinistra o nelle loro associazioni collaterali, non omologati sul dogma della crescita, culturalmente estranei alle dinamiche politiche del secolo scorso, guidati nelle loro scelte dall’analisi e dalla risoluzione dei problemi. Già se ne stanno formando. I loro incubatori sono i movimenti di resistenza alla costruzione di grandi opere pubbliche e alla privatizzazione della gestione dei servizi sociali, che sono le due linee strategiche su cui si è saldata l’alleanza tra grandi società e partiti di tutti colori con l’obbiettivo di avviare una nuova fase di crescita, dapprima con la costruzione di grandi opere pubbliche finanziate a debito dalle istituzioni statali e successivamente con la cessione a società private della gestione dei servizi pubblici essenziali (acqua, energia, rifiuti, sanità, scuola, trasporti) a copertura dei debiti accumulati dalle istituzioni per finanziare la costruzione di grandi opere pubbliche. La resistenza della Val di Susa alla costruzione della ferrovia ad alta velocità e le vittorie nei referendum contro il nucleare e la privatizzazione dei servizi idrici dimostrano che, nonostante la disparità delle forze in campo, la partita è iniziata e si può giocare.

Conclusioni Queste considerazioni non hanno la pretesa di costituire una proposta politica alternativa agli slalom tra misure restrittive per arrestare la deriva dei debiti pubblici e misure espansive per rilanciare la crescita in cui si dibatte il blocco di potere fondato sull’alleanza tra le grandi aziende operanti sul mercato mondiale e i partiti di destra e di sinistra che si alternano ai governi dei paesi industrializzati. Ancora non esiste un blocco di potere alternativo in grado di scalzare quell’alleanza e, quindi, non c’è possibilità di superare la crisi in corso, che è destinata ad aggravarsi progressivamente e a concludersi con un crollo rovinoso. Tutto lascia credere che questo esito sia ormai inevitabile. Che sia solo una questione di tempo. Se la prima a precipitare sarà la crisi climatica, sarà difficile trovare una via di scampo. Se invece la crisi climatica verrà ritardata dalla crisi economica o dalla crisi energetica, coloro che non si sono lasciati abbindolare dalla gigantesca opera di disinformazione e propaganda svolta dai mass media, e sono più di quanti si creda, possono evitare di rimanere sepolti dalle macerie. Per potersi salvare occorre sganciarsi dal sistema economico e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci, organizzando reti di economia, di produzione e di socialità alternative, in grado di funzionare autonomamente e di rispondere ai bisogni fondamentali della vita con le risorse dei territori in cui insistono. Come è sempre stato nella storia umana. Sulla capacità di resistere in un periodo di transizione che sarà inevitabilmente drammatico, sui patrimoni dei saperi e del saper fare accumulati e implementati nel corso delle generazioni, sulla capacità di trasformare con rispetto, efficienza e intelligenza le risorse della natura, sulla capacità di costruire rapporti improntati al rispetto reciproco, è possibile riavviare una nuova fase della storia umana. Perché storica e non congiunturale è la portata della crisi in atto. È la crisi di un modello economico e di civiltà che non ha più futuro, che non può essere riorganizzato e migliorato ma deve essere sostituito.

Giorgio Airaudo, responsabile nazionale Fiom settore automobilistico Natale Brescianini, priore dell’Eremo di Monte Giove Roberto Burdese, presidente Slow Food Italia Vincent Cheynet, autore del libro Le Choc de la décroissance, éd. Le Seuil Bruno Clementin, direttore dell’IEESDS (Institut d’études économiques et sociales pour la décroissance soutenable Serge Latouche, economista, teorico della decrescita

Rino Marceca, vicepresidente Comunità montana Valle Susa Wittfrida Mitterer, presidente Istituto Bioarchitettura Maurizio Pallante, presidente del Movimento per la Decrescita Felice Alberto Perino, Movimento No Tav

Carlin Petrini, presidente Slow Food international Bruno Ricca, editore Fabio Salviato, fondatore e primo presidente di Banca Etica

Dicembre 2011

Per maggiori informazione puoi consultare il testo completo Debiti pubblici, crisi economica e decrescita felice, oppure scarica il MANIFESTO in varie lingue .

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