James Hansen: chi è costui? Il pubblico statunitense lo conosce col nomignolo ridicolo di Jimmy Apocalips Hansen che gli hanno appioppato i giornalisti indigeni (perché il leggendario giornalismo anglosassone non è che sia poi meno cialtrone di quello nostrano); il pubblico italiano non lo conosce affatto. James Hansen è un ricercatore della NASA autore di vari studi sugli effetti del riscaldamento globale.

Egli si è espresso in numerose sue pubblicazioni in termini molto chiari su quanto sta accadendo: il riscaldamento globale potrebbe innescare la liberazione di enormi quantità di metano dagli oceani e dal permafrost delle zone artiche e questo potrebbe avvenire a breve scadenza: “il rapido incremento di CO2 nell’atmosfera nella prossima decade”, egli scrive, “potrebbe rendere impraticabile se non impossibile arrestare l’aumento delle temperature a livello globale” e a causa di ciò “la Terra potrebbe diventare un pianeta molto diverso da quello che è stato negli ultimi 10 millenni” [1]. Una posizione condivisa dai ricercatori dell’Intergovernative Panel for Climate Change secondo cui l’abbattimento delle emissioni di gas serra deve essere drastico e deve essere attuato in tempi molto rapidi.

In un precedente articolo ho riportato un’immagine che di recente ho visto e mostrato in pubblico: due fotografie satellitari della calotta polare artica, una del 1979, una del 2003. Nella seconda manca un terzo dei ghiacci. E ho ricordato che varie popolazioni dell’Oceania saranno molto presto costrette ad abbandonare le loro isole a causa del conseguente innalzamento del livello dell’oceano. Fra quelle a rischio di sparizione anche le Maldive.

Intanto si avvicina il picco del petrolio, ovvero quel momento a partire dal quale la produzione comincerà a declinare e non riuscirà più a soddisfare la richiesta mondiale, condizione indispensabile affinché il sistema possa funzionare. Quando accadrà? Uno studio dello Stato Maggiore Interforze statunitense pubblicato nel marzo 2010 [2] situa tale momento fra il 2014 e il 2015. Altre previsioni differiscono alquanto ma tutte entro un intervallo di pochi anni. Non c’è chi dice che sarà nel 2050 o nel 2100.

E siamo ormai nel pieno della sesta estinzione in massa da quando è iniziata la vita sulla Terra, la prima provocata dal comportamento di una singola specie animale; indovinate voi quale.

Sono partito da questo ampio orizzonte planetario perché esso è oggi lo sfondo di ogni vicenda che abbia per teatro questo o quell’angolo della Terra, e dunque anche delle vicende locali di questo forte che tenta, senza riuscirci, di diventare qualcos’altro. Cosa? Ecco, per capire le motivazioni della critica che farò a queste vicende bisogna aver ben chiaro il non rassicurante scenario mondiale che fa a esse, e a tutte le nostre vite, da cupo sfondo.

La prima cosa da sottolineare fortemente su tale scenario è che non stiamo più parlando di qualcosa che accadrà nei prossimi decenni ma di qualcosa che è già in atto, già conclamato adesso, mentre io scrivo, mentre, pochi giorni fa, Mario Albano ci guidava da un punto all’altro del forte. “Consigliano”, disse a un certo punto, “di comprare dei pezzi di terra da coltivare per sé, perché fra quarant’anni sarà sempre più difficile comprare il cibo”. “No, non fra quarant’anni; adesso”, risposi.

Ma nessuno mi ascoltò. Poco dopo, sotto il tendone, qualcuno parlò dei bambini che di questo passo “diventeranno nevrotici”. Diventeranno? Basta parlare con chiunque opera nel mondo della scuola per sapere che lo sono già ora. Eppure si parla ancora di tutto ciò come di ipotetici eventi futuri. “Fra quarant’anni”: lo dicevamo ai tempi dei primi studi del MIT per il Club di Roma, nel 1972. Oggi quei quarant’anni sono passati, ma nessuno sembra essersene accorto; si continua a dire: fra quarant’anni. Lo scorso anno in Brianza una persona che coltiva un orto familiare mi raccontava che dona le eccedenze a una mensa dei poveri e che in essa vede sempre più spesso non solo immigrati che non sono riusciti a inserirsi ma anche famiglie italiane. Oggi, non fra quarant’anni.

E adesso, con gli occhi ben fermi su questo presente, torniamo al parco San Jachiddu; e parliamo di ciò che è, di ciò che è stato, di ciò che avrebbe potuto e dovrebbe, a partire da subito, essere. L’analisi dell’attuale gestione è presto fatta poiché essa si può esaurientemente ridurre a due sole parole: non esiste.

L’analisi della gestione Albano, e di quelli che sono stati i suoi pregi e i suoi limiti, richiede un po’ più di spazio. I pregi sono ancor oggi sotto gli occhi di chiunque visiti il forte e, primo fra tutti, l’aver realizzato tutto questo a partire da un luogo il cui degrado era assoluto. Parliamo allora dei difetti, perché questi sono il terreno su cui vorrei innestare la mia riflessione.

Cos’è stato dunque il parco San Jachiddu durante gli anni di Mario? È presto detto: è stato una collezione, sempre più ricca, di simboli. E nulla più. È stato un luogo dove ci si recava per immergersi nella loro contemplazione, raccontarsi l’un l’altro la favola bella della vita a contatto con la natura, dell’amore per essa, e poi tornare a casa, alla vita reale, quella coi piedi piantati per terra, quella del posto fisso, del bancomat, del PIL. Senza accorgersi che le favole, e neppure belle, stanno proprio in quella vita. E, soprattutto, che essa non può durare, che qualcosa sta accadendo, che le metterà fine: ciò che ho raccontato in apertura di questa seconda parte. E sta accadendo ora.

Giorni fa in un negozio ho colto un frammento di telegiornale: “…consiglio dei ministri: all’ordine del giorno l’agenda della crescita”. Eccola lì la favoletta: non c’è bambino che non sia capace di capire che niente può crescere per sempre, e meno che mai un sistema produttivo. Ma non lo capisce una congrega di ministri, di economisti, di sindacalisti, di giornalisti. Nessun sistema può crescere indefinitamente senza giungere a un punto di saturazione e al successivo crollo. Gonfiate un palloncino, e gonfiatelo ancora, e poi ancora.

Pensate davvero di poterlo fare all’infinito? Cosa accadrà prima o poi? C’è forse qualcuno che non sappia rispondere a questa domanda? Ma quando il palloncino si chiama Prodotto Interno Lordo sembra che ogni evidenza sia accantonata, che si possa continuare a pompare per sempre. Il risultato è quello descritto all’inizio: una biosfera che sta crollando sotto il peso di una congerie di frenetiche attività produttive sempre più devastanti. La biosfera e, ovviamente, noi con essa.

Ecco dunque dove stanno le favole, ecco quale vita non può vantare l’appellativo di “concreta”, quella convenzionale del signor Rossi industrializzato che vive immerso in una granitica allucinazione collettiva, in un intontimento dal quale tra breve il mondo reale, il vero mondo reale, lo sveglierà col suo crollo. Un crollo che, repetita juvant, sta già cominciando ad avvenire.

A fronte di tutto ciò, di cosa abbiamo bisogno? La risposta dell’attuale gestione del Parco è semplice e chiara: abbiamo bisogno di orchestrine jazz. Consentitemi di andare a capo.

Abbiamo bisogno di ciò che io chiamo ‘luoghi di realtà’, luoghi che non siano spazi di contemplazione estraniante improntati a un generico e in fondo inoffensivo ‘amore per la natura’ che poi lascia il mondo così come sta, bensì laboratori di riprogettazione delle nostre vite, luoghi in cui ci si incontra per pensare e fare, con l’obiettivo esplicito di staccare la spina da quel “loro” mondo che sta crollando e impostare su altre basi la propria (la propria!) vita.

In concreto, sappiamo oggi che ciò significa agire prioritariamente su tre aspetti di essa: innanzi tutto le scelte alimentari, perché il più pesante fra tutti i nostri modi di devastare il pianeta è il semplice atto di sederci a tavola. Tali scelte devono essere riorientate primariamente verso i cibi vegetali prodotti biologicamente, riportando la più devastante fra le attività produttive agroalimentari, ovvero la zootecnia, al ruolo marginale che storicamente ha sempre avuto (quanto alla leggenda del “ciboachilometrizero”, sul piano della sostenibilità ambientale essa è, numeri alla mano, prossima all’irrilevanza).

In secondo luogo dobbiamo prendere in considerazione i consumi energetici dei nostri edifici, che oggi sono degli autentici colabrodi, migliorandone l’efficienza e rivolgendoci alle fonti rinnovabili. Infine (meno importante ma non trascurabile) dobbiamo ridurre il più possibile i nostri consumi nei trasporti, contesto in cui l’azione solidale collettiva risulta fondamentale. Da un parco ecologico mi aspetto che diventi luogo di aggregazione in cui si affrontano nel concreto, il che significa a suon di numeri, queste tematiche con l’obiettivo di agire fattivamente, individualmente e collettivamente, su di esse. Mi aspetto che si organizzino stage sull’alimentazione, sull’energia, sui trasporti e che da essi escano scelte di mutamento reale concretamente realizzate da tutti i partecipanti.

Un luogo come il parco in altre parole non deve essere una parentesi al di fuori della vita ‘reale’, deve essere esso il focolaio della vita reale.

Ma, si dirà, per fare tutto ciò ci vogliono persone, risorse umane. E qui emerge il secondo limite della gestione Albano del forte, e di moltissime altre realtà alternative analoghe. Siamo in molti a notarlo: esse sono davvero tante, ma tutte scollegate, impermeabili le une alle altre. Il San Jachiddu non ha fatto eccezione: il Forte, il Forte, fortissimamente il Forte. E il Forte rimase impermeabile al mondo esterno. Tutto ciò che non fosse generato al suo interno rimbalzava senza lasciare traccia.

E il Forte divenne sempre più debole, cominciò a soffrire del male che ho visto serpeggiare in mille altre situazioni analoghe in mille altri luoghi d’Italia: l’asfissia per mancanza di persone. Perché sempre accade che coloro che emergono in tali situazioni sono anche quelli più vicini al “loro” mondo, al ‘sistema’ e ciò che ha reso quella realtà ‘altra’, ‘diversa’, insomma viva, viene a cessare. È ciò che è accaduto al parco San Jachiddu di Messina. È ciò che è accaduto, dicevo, in mille altri luoghi e situazioni. E che, temo, continuerà ad accadere.

Note

1. J. Hansen e al., Dangerous human-made interference with climate: a GISS model study, Atmosferical Chemistry Physics, 7, 2287–2312, 2007.

2. G. S. Frankel, L’incognita del picco petrolifero, Il Sole 24 ore 26 luglio 2010. I militari sono interessati all’argomento per l’ovvia ragione che le guerre odierne non si combattono soltanto per il petrolio ma anche con il petrolio.

di Filippo Schillaci

Fonte: Il Cambiamento

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