Il Rapporto globale sugli insediamenti umani 2011 dell’ONU rileva che abbiamo superato la soglia del 50% della popolazione mondiale che vive in aree urbane. Non ci sono mai state sulla terra così tante persone per le quali alimentazione, riscaldamento e altri bisogni primari dipendono da luoghi altri e così distanti. Gli stessi elementi che hanno reso possibile questa vertiginosa urbanizzazione, il consumo massiccio di petrolio e gas naturale, sono responsabili del picco del petrolio e dei cambiamenti climatici, questioni che minacciano di destabilizzare il mondo contemporaneo, urbano e globalizzato.

Le città moderne sono l’espressione fisica del modello economico dominante: la crescita materiale e quantitativa. Gli attuali modelli insediativi comportano un alto consumo di risorse naturali non rinnovabili –materie prime, combustibili fossili, acqua, suolo- e l’emissione di sostanze inquinanti in atmosfera, nel suolo e nelle acque. Tutte le città sono cresciute inglobando il territorio agricolo circostante per cui gli antichi modelli economici e sociali basati sull’interdipendenza fra insediamenti urbani e campagna, sono entrati progressivamente in crisi fino al collasso attuale.

Che livello d’insostenibilità potrà mai avere un tale tipo di agglomerato il giorno che la produzione di petrolio e di gas naturale scenderà anche solo di qualche punto percentuale? E cosa accadrà quando si presenteranno in tutta la loro evidenza, gli effetti dei cambiamenti climatici: innalzamento dei mari, aumento delle temperature e forti ondate di calore, fenomeni atmosferici estremi, concentrazione delle precipitazioni in pochi giorni alternata a prolungati periodi di siccità, emergenza idrica?

Le comunità umane dovranno prepararsi ad affrontare la doppia sfida costituita dal sommarsi del riscaldamento globale e del picco del petrolio e quindi le città dovranno trasformarsi e ricercare stratagemmi per ridurre l’utilizzo di energia ed incrementare la propria autonomia a tutti i livelli (energetica, idrica, alimentare, ecc).

Quali città potranno affrontare meglio queste sfide epocali?

Le città che hanno investito in un sistema di trasporti diversificato con un maggior numero di persone che si sposta in bicicletta, a piedi e con i mezzi pubblici. Gli insediamenti urbani dove è facile trovare prodotti locali abbondanti e a basso prezzo grazie alla presenza di mercati di quartiere, fiere contadine, fattorie urbane. I comuni che hanno incoraggiato pratiche sostenibili come la bioedilizia e le reti di economie locali. Soprattutto le città in cui la società civile è protagonista dei cambiamenti attraverso un atteggiamento pro-attivo e creativo, città nelle quali i cittadini prendono parte alla vita della comunità locale su base volontaria, fondando associazioni, comitati di quartiere, dando avvio a iniziative che riguardano un modello sociale ed economico alternativo.

In questo scenario incomincia a farsi strada nelle città il progetto della decrescita, che mette in discussione il modello di sviluppo capitalistico nel suo complesso e quindi passa attraverso una rifondazione del politico, ma ridefinisce anche il concetto di polis, di città e del suo rapporto con la natura.

Nella società della decrescita il rapporto fra territorio, ambiente e insediamenti umani vive una profonda trasformazione, si fa strada un nuovo modo di abitare e vivere, vicino al modello comunitario pre-industriale.

Affinché le città possano avviarsi alla transizione verso una nuova era post-picco le comunità locali dovranno saper ripensare, ridisegnare, ristrutturare l’ambiente urbano e l’economia locale in base alle nuove esigenze e per aumentarne la resilienza.

In questo senso rivestono grande importanza in ambito urbano iniziative quali:

1) la difesa e la diffusione della biodiversità vegetale, la creazione di giardini condivisi e orti comuni, di piccoli allevamenti animali seguendo i principi della permacultura, la riforestazione urbana diffusa (orizzontale e verticale), l’intercettazione e raccolta delle acque meteoriche con la creazione di vasche e di canali urbani con sistemi di fitodepurazione, il riuso e riciclaggio delle acque di scarico depurate.

2) la creazione di percorsi ciclo-pedonali, la condivisione dell’auto (car-sharing), l’incentivazione del paratrasporto.

3) l’incremento nell’uso di fonti energetiche rinnovabili, il risparmio energetico in edilizia, il riscaldamento e raffrescamento passivo attraverso un approccio progettuale che segue i principi dell’architettura bio-climatica e che fa tesoro delle antiche tecniche costruttive spesso dimenticate.

4) la rivalutazione delle antiche regole perché i modi di costruzione tradizionali, elaborati quando l’energia era poca e costava tanto, erano finalizzati a fare in modo che la struttura degli edifici fosse in grado di costituire un riparo dagli effetti indesiderati del clima, il freddo d’inverno e il caldo d’estate, mentre le tecnologie edili che li hanno sostituiti in nome della modernità li hanno resi dipendenti da protesi energetiche per svolgere le stesse funzioni, col risultato che oggi gli edifici dei paesi moderni assorbono circa la metà di tutti i consumi energetici, costituendo la principale fonte di emissione di CO2 e del potenziale autodistruttivo insito nel modo di produzione industriale.

5) il riciclaggio di materie di scarto come materie prime per altre filiere produttive, la riparazione di vecchi oggetti non più funzionanti in luogo della loro dismissione come rifiuti, la trasformazione dei rifiuti organici in compost per aumentare la fertilità dei suoli.

Gli insediamenti umani devono evolversi verso l’autosufficienza alimentare ed energetica sperimentando discipline di frontiera e pioneristiche finora poco utilizzate come la permacultura e la biologia quale modello per la progettazione , idea sviluppata dal New Alchemy Institute già negli anni ’60. Andranno sviluppati nuovi approcci alla progettazione come il post oil design e il carbon neutral design, nuove tecniche come l’acquacultura e la bio-depurazione sull’esempio delle macchine viventi di John Todd, nuove tipologie edilizie come bioricoveri, serre e shadehouse.

Nella società della decrescita si da vita a nuove forme di convivenza tali da rispondere all’attuale disgregazione dell’organizzazione familiare, culturale e sociale della condizione postmoderna e globalizzata. Si rivalutano i legami comunitari nelle famiglie, si rompono i limiti mononucleari in cui la famiglia è stata ristretta, si riscopre l’importanza dei rapporti di vicinato, si ricostruiscono forme di solidarietà comunitaria per libera scelta tra persone con sensibilità comune (banche del tempo, gruppi d’acquisto solidale, co-housing, eco-villaggi).

Tuttavia il paradigma culturale della decrescita non può realizzarsi nel solo ambito urbano, perché è necessaria una inversione dei movimenti migratori tra le città e le campagne, deve cioè tramontare definitivamente l’era dell’urbanizzazione.

Una soluzione ai problemi delle società occidentali è costituita probabilmente da una neo-ruralità come dice Maurizio Pallante 1) o, come dice Bill Mollison padre della permacultura, dalla formazione di piccole comunità responsabili 2) , impegnate nell’applicazione di tecnologie appropriate e discipline di frontiera, come appunto la permacultura.

Dobbiamo passare dalla condizione di consumatori a quella di produttori di cibo, anche se su piccola scala, nei nostri orti. Dobbiamo comprendere il modo in cui funzionano i sistemi naturali, attraverso l’attenzione alla riforestazione e alla coltivazione in generale e attraverso la contemplazione e la cura della terra.

Vorrei concludere con le parole di Mollison “Per noi non c’è altro sentiero che quello della produttività cooperativa e della responsabilità comunitaria. Imboccate quel sentiero e la vostra vita cambierà in un modo che ancora non potete immaginare”3)

1) M. Pallante. Meno e meglio. Bruna Mondadori Editore

2) e 3) B. Mollison e R. M. Slay. Introduzione alla permacultura. Terra Nuova Edizioni

di Carla Majorano (Mdf Napoli)

One thought on “Territorio, insediamenti, comunità nell’era della decrescita felice”

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