Seguendo la vecchia ma ancora attualissima definizione di Werner Sombart, un sistema economico è “una forma particolare di economia, cioè una determinata organizzazione della vita economica nel cui ambito regna una determinata mentalità economica e si applica una determinata tecnica” [Sombart, 1916].

Tre sono dunque i suoi aspetti salienti:

1) La mentalità economica, ovvero l’insieme dei valori che orientano il comportamento degli individui partecipanti all’attività economica.

2) L’organizzazione economica, ovvero il complesso di norme formali e informali che, nell’ambito di una determinata società, regolano l’esercizio delle attività economiche da parte di tali soggetti (l’uso di dei mezzi legittimi per conseguire determinati fini, questi ultimi dettati in parte dalla mentalità economica).

3)  La tecnica, ovvero l’insieme delle conoscenze tecnico-scientifiche e i procedimenti utilizzati dai soggetti per produrre beni e servizi al fine di soddisfare i loro bisogni.

Questi tre aspetti non sono dati una volta per tutte, ma possono mutare nel tempo, insieme con la cultura di una società. La definizione di Sombart ci è utile perché ci permette di astrarre lo sguardo dagli eventi contingenti e dalla complessità intrinseca nell’attuale modello economico, il capitalismo o economia di mercato [1], per provare a concepire alternative possibili in direzione di una società decrescente.

Se analizziamo le cose da cambiare a partire da questa definizione, possiamo forse meglio comprendere quali potrebbero essere le linee di azione da mettere in atto per innescare un cambiamento, nella consapevolezza che l’efficacia di queste ultime sarà tanto maggiore quanto più esse saranno organiche, coordinate e condivise.

Un paradosso che riguarda il primo punto, la mentalità economica, è che quanto più questa è radicata nella cultura di una società, tanto più gli individui che ne fanno parte tendono a darla per scontata e ad evitare la sua problematizzazione critica, concependola in taluni casi perfino come “insita nella natura umana”. Così, per prendere a titolo di esempio il tipo di mentalità economica egemone nel contesto del sistema economico capitalista – la razionalità strumentale o utilitaristica -, nelle analisi delle azioni degli attori economici svolte dagli economisti (e sempre più nel senso comune) questa tende a divenire l’unica forma di razionalità possibile, perfino nei casi in cui le azioni degli individui appaiono in netto contrasto con  essa; scontrandosi con una realtà empirica fatta anche di  individui che agiscono perseguendo finalità palesemente altruistiche, ci si ingegna a scavare alla ricerca del tornaconto personale che si presume debba nascondersi alla base di tali forme di agire, identificandolo di volta in volta con l’utilità generata per sé in termini di prestigio sociale guadagnato grazie ad un’azione generosa, oppure nella forma del riconoscimento e affetto corrisposto da parte delle persone a cui si è prestato aiuto. La socialità diviene allora un mezzo per un fine altro, che va indagato per mostrare il vero lato oscuro dell’essere umano (nonché, molto più prosaicamente, perché certi modelli economici reggano).

E’ chiaro come la diffusione di un sentire comune che legittimi una concezione primariamente strumentale dell’agire umano generi conseguenze anche sul piano empirico, portando dapprima il sentire comune a conformarsi con l’ideologia dominante (nella forma in cui si è presentata in seno al capitalismo di fine ottocento quest’ultima è stata, almeno per quanto riguarda il caso della razionalità strumentale, in buona parte prodotto della teoria economica neoclassica), e in un secondo tempo plasmando la stessa realtà empirica a sua immagine e somiglianza [2]. Si tratta di un caso di profezia che si autoadempie – per utilizzare la celebre espressione di Watzlawick – che ha avuto un impatto enorme sugli stili di vita e sulla concezione del mondo degli individui, inizialmente in occidente e successivamente nel resto del pianeta.

Quali c0nseguenze, o concause – il che è arduo stabilire con esattezza – della nascita e diffusione della mentalità economica basata sulla razionalità strumentale, vanno analizzate l’organizzazione economica e la tecnica. La prima riguarda le “regole del gioco”, non solo quelle scritte nei codici giuridici, preposte più direttamente al controllo delle attività economiche, ma anche quel sistema di sanzioni e incentivi sociali che incanalano i comportamenti degli attori verso determinati sentieri piuttosto che altri; tra questi ultimi, per fare degli esempi, figurano il riconoscimento sociale per l’ambizione incrollabile che porta al successo mediatico un attore di periferia (incentivo sociale) e il biasimo verso chi sceglie di lavorare di meno e vivere con poco, accusato di pigrizia e indolenza (sanzione sociale).

Infine la tecnica, solo apparentemente scollegata dalla mentalità e dall’organizzazione economica, che in realtà legittima e dalle quali è legittimata. Essa, come già detto, si compone di conoscenze tecniche e procedimenti: le prime sono strettamente connesse all’innovazione tecnologica, le seconde riguardano l’utilizzo di tali innovazioni secondo criteri particolari orientati verso certi fini (dettati in parte dai valori egemoni connessi alla mentalità economica). Una stessa tecnologia agricola può essere ad esempio utilizzata per la piccola produzione orientata all’autosussistenza o alla vendita a filiera corta e/o a “kilometro 0″ [3], oppure essere utilizzata nel contesto della grossa produzione orientata ai grandi mercati internazionali. La tecnica ha dunque influenza sulle pratiche degli attori economici, tendendo a modificarle, ma i fini e i mezzi per i quali e con i quali tali pratiche sono poste in essere, nonché le norme che influenzano il perseguimento dei primi  e la scelta dei secondi, sono in gran parte esito della mentalità economica e dell’organizzazione economica egemoni in una data società.

Dunque questi i tre livelli, fortemente interconnessi, che vanno a formare un sistema economico. In un prossimo articolo proverò ad analizzare le implicazioni di queste definizioni per la prospettiva di cambiamento proposta dalla teoria della decrescita.

Note:

 1. Per essere più precisi e in considerazione dei mutamenti significativi che hanno coinvolto tale sistema e l’hanno reso differente da quanto era stato fino ai primi tre quarti del secolo scorso, si è fatto largo nella letteratura accademica e non solo l’utilizzo del termine “financialized capitalism”, o, per usare il neologismo italiano di Luciano Gallino, “finanzcapitalismo”, a indicare l’enorme peso che il mondo della finanza ha finito per assumere nell’economia globale.

2. Con ciò non intendo sostenere che gli individui abbiano finito per agire  in maniera in tutto e per tutto coerente col modello di azione strumentale proprio della teoria economica, ma molto più modestamente che il comportamento di una larga parte degli attori economici ha sempre di più teso a conformarsi a tale modello ideale (con questa accezione utilizzo le espressioni “mentalità economica egemone” e “ideologia dominante”). Sulla diffusione dell’etica utilitarista si veda “S. Latouche, L’invenzione dell’economia”; per un’analisi più organica, da un punto di vista metodologico, si veda invece “R. Boudon, Teoria della scelta razionale e individualismo metodologico: sono la stessa cosa ?,  in M. Borlandi e L.Sciolla (a cura di), La spiegazione sociologica. Metodi, tendenze, problemi”.

3. I due concetti vanno distinti in quanto il primo si riferisce al numero di “passaggi di mano” dei beni prima del loro arrivo al consumatore finale, il che nulla ci dice sull’effettiva distanza percorsa da tali beni; il secondo si riferisce all’effettiva distanza percorsa dai beni, il che nulla ci dice circa il numero di “passaggi di mano”.

Fonte : decrescita.com – Federico Tabellini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *