“Quanto sta accadendo a Roma in questi giorni è allarmante.
Non tanto perché mette in luce i segni di una politica ‘sporca’, corrotta e sempre più autoreferenziale. E nemmeno perché questo può essere un indice dello squallore che ancora non è stato portato alla luce ma che sicuramente giace nel fondo del barile. E’ invece tanto più inquietante perché rivela – semmai ci fosse ancora bisogno di dimostrarlo – lo sfascio, l’imbarbarimento e la decadenza culturale in cui questa nostra stanca comunità (intesa in termini antropologici) sta sprofondando giorno dopo giorno.
E mi preoccupa soprattutto, più che il malcostume della politica a cui ci siamo abituati da oltre un decennio (anche grazie alle numerose denunce di programmi come ‘Report’ ad esempio), il clima da ‘rivoluzione francese’ che si sta creando nel nostro Paese. Premetto che non ho mai provato grande simpatia per il ‘giacobinismo’ rivoluzionario di stampo qualunquista. Parliamoci chiaro, sgombrando il campo da qualsiasi accusa di giustificazione di un sistema istituzionale ‘marcio’ alle radici, non è mia intenzione indurre a minimizzare le responsabilità enormi della politica italiana. A tal riguardo bastano le decine di articoli che ho scritto da alcuni anni a questa parte (peraltro pubblicati anche nel mio blog) sul malcostume e i vizi di un’intera classe dirigente. Ma la cosa che in questo momento più mi irrita non è tanto la classe politica,  quanto l’ipocrisia delle persone, della società civile, che fatica a ragionare creando un clima da caccia alle streghe e di pericoloso conflitto sociale. Come se la politica non rappresentasse i cittadini, come se quei rappresentanti non fossero il prodotto e il riflesso – in quanto appartenenti a quella società – della società stessa. Non è con un semplice avvicendamento delle persone ai vertici che si cambia, ‘noi’ non siamo migliori di ‘loro’, noi siamo loro. Come se il sistema di corruzione, di amoralità pubblica, di commistione stato-criminalità (il termine ‘mafia’ non mi piace, essendo ormai abusato), di ‘etica del disgusto’ insomma, facessero parte di una sola categoria sociale, di un solo ambito professionale.  Chi, come il sottoscritto, da anni denuncia l’insopportabilità di un sistema non può non indignarsi nel constatare che quelle stesse persone – oramai la maggioranza – che ora incitano al clima da ‘forca’ siano anch’esse responsabili del malfunzionamento di quel sistema. E’ facile parlare alla pancia delle persone con sdegno, con enfasi emotiva, attraverso espedienti retorici, semantici e comunicativi degni del peggior populismo del Novecento. E’ comodo prendersela con la classe politica, con i rom, con gli immigrati, con i gay, con l’euro etc. E’ facile, per puro interesse di potere personale, scandalizzarsi contro qualche presunto responsabile del pandemonio e della crisi economica di questi anni. Quando un paese e un popolo sono in crisi (economicamente e socialmente) è più semplice individuare dei capri espiatori contro cui rivolgere le proprie energie e la propria rabbia; la storia degli ultimi due secoli ce lo insegna e ci mostra anche che quelle dinamiche hanno spesso portato – nel bene e nel male – a un rovesciamento di prospettive, di poteri che si alternano. Situazioni simili hanno anche sempre condotto a tragici conflitti, a guerre e atrocità nel nome di un nemico comune da abbattere.
E guarda caso, mai nessuno che cerchi di guidare il proprio popolo, i propri ‘vicini di casa’, verso responsabilità comuni più grandi, verso il superamento condiviso di quelle difficoltà, verso una presa di coscienza ‘sana’ e globale del problema da affrontare. Una tale logica giungerebbe, verosimilmente, a soluzioni più rapide e incisive rispetto alla lotta contro un comune nemico immaginario (la classe politica, gli indigenti, gli immigrati etc.). Il progresso dell’umanità starebbe proprio in simili dinamiche, altro che il raggiungimento di nuovi pianeti nell’universo, altro che nuove tecnologie o scoperte scientifiche. Ciò che serve davvero per una qualità della vita migliore è una sorta di maturità collettiva, un nuovo umanesimo, qualcosa che parta da un paradigma culturale diverso, da una consapevolezza che a cambiare – e cambiare si può, sebbene con sacrificio – dobbiamo essere tutti, non solo la classe politica che rappresenta le istituzioni. Se la macchina ha dei gravi difetti strutturali, cambiando solo il pilota non si arriva al traguardo, occorre prima risolvere i problemi meccanici. Dare la colpa ad altri è facile, ma non risolutivo, soprattutto nel lungo periodo. E non basta nemmeno solo urlare al ‘cambiamento culturale’ per ricevere consenso (specie se di natura elettorale), occorre orientare le proprie azioni verso pratiche e abitudini di vita diverse. Il cambiamento culturale, in effetti, è qualcosa che non si preoccupa del consenso elettorale, ma che mira solo ai percorsi che conducono a quel cambiamento.
Da un punto di vista pratico quel cambiamento si realizza con le singole e personali azioni quotidiane. Ce lo insegnano tanti individui, uomini e donne, che hanno fato scelte di vita diverse, che hanno consapevolmente indirizzato la propria esistenza verso situazioni forse meno ‘comode’ e meno evidenti, ma certamente più incoraggianti in termini di salvaguardia della vita futura su questo pianeta. Ed esistono già anche paradigmi e ‘filosofie’ – perché il pensiero umano, specie quello occidentale, è spesso precursore dell’azione e delle scelte individuali e delle masse – in questo senso. Tra queste, quella che mi sembra più convincente al momento è la ‘decrescita felice’, l’unica che aspira a un rovesciamento totale di prospettiva nel lungo periodo, soprattutto nella sua componente culturale e sociale. E lo fa incitando non alla rivolta sociale, ma esortando tutti i cittadini ad adattarsi a stili di vita più sobri e umani, riscoprendo abitudini, savoir faire, e comportamenti di una volta, improntati a un rapporto con l’ambiente, a ritmi e a relazioni umane più semplici e naturali. Non è nemmeno questa la sede per respingere i luoghi comuni e la critica secondo cui, in questo modo, si vorrebbe riportare l’umanità a condizioni di sottosviluppo, a sistemi di lavoro antiquati e retrogradi. La teoria della decrescita non è nulla di tutto ciò, questa è solo la visione ‘infantile’ e sbrigativa da parte dei suoi detrattori per limitarne la diffusione a scopi per lo più ‘politici’.
E non è nemmeno un caso se un grande personaggio del nostro tempo – penso a Papa Francesco – incoraggi costantemente al rispetto e alla riscoperta proprio di quei valori nella nostra società, nel nostro essere individui prima ancora che collettività.  E’ questo ciò di cui abbiamo bisogno, dei nuovi punti di riferimento, di nuovi grandi esempi, di un nuovo paradigma, appunto, attorno a cui far ruotare le singole scelte quotidiane.”

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