di Ashish Kothari, Federico Demaria, Alberto Acosta*

Di fronte al peggioramento della crisi di civiltà (sociale, ecologica ed economica) negli ultimi due decenni sono emerse con sempre piú forza due grandi tendenze: la prima persegue la sostenibilitá ambientale, e la seconda, l’eguaglianza e la giustizia. Due forze, tuttavia, complementari.

Queste forze sfidano, prima di tutto, gli approcci della green economy e dello sviluppo sostenibile che domineranno la conferenza sul clima di Parigi (Cop21, in programma a dicembre, ndr), cosi come gli Obietivi di sviluppo sostenibile post 2015 (OSS). Sappiamo che queste opzioni cosi tanto pubblicizzate non sono riuscite (e non riusciranno) a ottenere armonizzazione della crescita economica, benessere sociale e protezione dell’ambiente. Un’equazione comunque impossibile da qualsiasi punto di vista.

I paradigmi dell’ecologia politica, compromessi con la vita della terra e dell’umanitá, al contrario, sostengono cambiamenti strutturali. Sfidano la predominanza dello sviluppo, e in particolare dello sviluppo fondato sulla crescita economica, basato sui combustibili fossili (leggi anche Mettere al centro la vita degna di Alberto Acosta). Sfidano il capitalismo, soprattutto la sua versione neoliberale estrema, mentre propongono una radicalizzazione della democrazia, che non puó ridursi esclusivamente alla democrazia rappresentativa (leggi anche Governarci di Gustavo Esteva, ndr).

Le false risposte della green economy

Se si guarda alla politica ambientale internazionale degli ultimi quattro decenni, i suoi principi fondamentali, stabiliti nel decennio degli anni settanta, sono scomparsi.

Il documento finale del vertice di Rio 2012 + 20, intitolato “Il futuro che vogliamo“, non ha identificato le radici storiche e strutturali della povertà, della fame, della disuguaglianza e dell’insostenibilità. Non dice nulla sugli effetti negativi derivanti dalla centralizzazione del potere dello Stato, i monopoli capitalistici, il colonialismo, il razzismo e il patriarcato. Non diagnosticando a chi o cosa si debba tale (ir)responsabilità, è inevitabile che qualsiasi soluzione proposta non sia sufficiente ad affrontare le sfide urgenti della crisi di civiltà che abbiamo di fronte.

Inoltre, il documento non riconosce che la crescita infinita è impossibile in un mondo finito. Concettualizza il capitale naturale come un “bene economico fondamentale”, aprendo la porta a una ulteriore mercificazione della natura, attraverso il cosiddetto capitalismo verde. Non respinge il consumismo sfrenato. Al contrario, pone enfasi sui meccanismi di mercato, tecnologia e una migliore gestione invece che sui profondi cambiamenti politici, economici e sociali di cui il mondo ha bisogno. Il che, come è facile intuire, non darà i risultati attesi.

Al contrario, alcuni movimenti per la giustizia ambientale, raccogliendo vecchie e nuove visioni del mondo, propongono soluzioni efficaci, che necessariamente devono essere strutturali. Queste risposte sono parte di una lunga ricerca di vita alternativa forgiata nel calore della lotta per l’emancipazione dell’umanità e la vita in varie regioni del mondo. Diversamente dallo sviluppo sostenibile, che crede falsamente di poter essere applicato universalmente, questi approcci alternativi non possono essere ridotti ad un unico modello (a questi temi è dedicato anche l’ultimo libro di Raúl Zibechi, dal titolo Alba di mondi altri, qua la nota introduttiva di Marco Calabria). Queste nozioni di vita, di conseguenza, sono eterogenee e plurali. Rappresentano le possibilità di una vita in armonia degli esseri umani con la comunità, delle comunità con altre comunità, e degli individui e le comunità con e nella natura.

Anche papa Francesco nell’enciclica “Laudato sì” (qui un commento di Paolo Cacciari, Il Cantico che non c’era, ndr), come il Dalai Lama e altri leader religiosi, è stato esplicito sulla necessità di ridefinire il progresso:

“Affinché sorgano nuovi modelli di progresso abbiamo bisogno di «cambiare il modello di sviluppo globale» […] Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso. D’altra parte, molte volte la qualità reale della vita delle persone diminuisce – per il deteriorarsi dell’ambiente, la bassa qualità dei prodotti alimentari o l’esaurimento di alcune risorse – nel contesto di una crescita dell’economia. In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine”.

Altrettanto esplicito è la recente “Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico globale” (a cui Gustavo Duch dedica questo articolo Non sarai mai alto come le montagne) quando dice:

“Riconosciamo la corruzione (fasād) che gli esseri umani hanno provocato sulla Terra a causa della nostra ricerca implacabile di crescita economica e consumo”.

Alternative radicali

La critica non è sufficiente. Abbiamo bisogno delle nostre narrazioni. È urgente eliminare il concetto di sviluppo e aprire la porta a una moltitudine di idee e visioni del mondo, vecchie e nuove. Queste includono il buen vivir (sumak kawsay o suma qamaña), una cultura della vita con diversi nomi e versioni che vengono dai popoli indigeni di differenti regioni dell’America latina (leggi anche La buona vita, il Sumak Kawsay, del poeta e scrittore ecuadoriano Ariruma Kowii, ndr). Ubuntu in Sud Africa, con la sua enfasi sulla reciprocità umana: “Io sono perché noi siamo”. La democrazia ecologica radicale o Swaraj ecologico in India, con una particolare attenzione per l’autonomia e l’autogoverno. Ed, infine, la decrescita (nell’archivio di Comune trovate saggi su questo tema scritti, tra gli altri, da Serge Latouche, Veronika Bennholdt-Thomsen, Paolo Cacciari, Chris Carlsson, Maurizio Pallante, Carlos Taibo, Alessandro Pertosa, Alberto Castagnola), ovvero la possibilità di vivere meglio con meno e in comune (leggi Mettiamo in comune, di John Holloway, ndr), senza sostenere i privilegi di pochi gruppi umani.

Queste visioni del mondo differiscono notevolmente dalla nozione attuale di sviluppo. Si oppongono alla fede dogmatica della crescita economica. Propongono invece la nozione del benessere, che non può essere confuso con la dolce vita di pochi a scapito del sacrificio della maggioranza e della natura. Queste opzioni di vita possono avere diversi elementi, ma esprimono valori fondamentali in comune, come la solidarietà, l’armonia, la reciprocità, la diversità e l’unità con la natura.

Ci sono valori, esperienze, ma soprattutto migliaia di iniziative che mettono in pratica gli elementi di tale trasformazione socio-ecologica. Potremmo citare il recupero di territori indigeni e modi di vita in America; i movimenti zapatisti e curdi di autogoverno; varie forme di solidarietà e di economia popolare e solidale, come le cooperative di produttori e consumatori; le città in transizione; le monete comunitarie; la gestione comunitaria di terra, acqua e foreste; i movimenti di democrazia diretta in America Latina e in Asia meridionale; l’agricoltura agroecologica e le energie rinnovabili decentralizzate in tutto il mondo, tra gli altri.

Molti di questi progetti costituiscono la base per la politica di cambiamento concreto come quello che avrebbero potuto promuovere Syriza in Grecia o Podemos in Spagna (ne ha ragionato il Collectivo Research & Degrowth in Sì, una prosperità senza crescita è possibile, ndr). Si tratta di elementi di un progetto chiamato Plan C, promosso dal basso verso l’alto, basato sulla solidarietà della comunità e la de-mercificazione dei beni comuni, a cominciare dall’acqua. Questa sarebbe un’alternativa al fallito progetto di austerità neoliberista, cosi come al progetto di crescita keynesiano.

Delude l’incapacità o la mancanza di volontà política delle Nazioni Unite di riconoscere i difetti fondamentali del sistema economico e politico dominante attuale e per fornire un programma davvero trasformatore verso un futuro sostenibile ed equo. Tuttavia, è comprensibile. Il tutto non può essere migliore rispetto alle parti, specialmente in una organizzazione rappresentata dai governi – per lo più – al servizio del capitalismo. Nonostante ciò, e consapevoli dei limiti in questo scenario, valutiamo in modo positivo che la società civile continui a premere per influenzare l’agenda degli obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS) post-2015, immaginando e promuovendo visioni e cammini fondamentalmente alternativi. È imperativo sciogliere il tradizionale concetto di progresso nella sua deriva produttivista e dello sviluppo come unica direzione possibile, soprattutto con la sua visione meccanicistica della crescita economica. È per questo che abbiamo bisogno di alternative allo sviluppo. Anche se ora sembra un sogno impossibile, quelle alternative dovranno costituire la base per un’altra civiltà. Considerando che le crisi intrecciate aumentano e che le risposte proposte, come la green economy, non forniscono soluzioni reali, e non potrebbe essere altrimenti, la gente in ogni angolo della terra opporrà resistenza e continuerà a costruire valide alternative. Ed è li dove sorgerà la grande trasformazione, con la quale, per la sua valenza politica mobilizzatrice, potremo definitivamentente voltar pagina.

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* Ashish Kothari è membro di Kalpavriksh (Pune, India) e co-autore di Churning the Earth (Penguin, 2012). Alberto Acosta è docente della Flacso (Quito, Ecuador) e autore di El Buen Vivir (Icaria, 2013). Federico Demaria fa parte di Research & Degrowth, è ricercatore dell’Icta Uab (Barcellona, Spagna), co-curatore di Decrescita: Vocabolario per una Nuova Era (Jaca Books, 2015) e collaboratore di Comune. La traduzione di questo articolo è di Federico Demaria.

Fonte: comune-info.net

 

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