A 48 ore dall’apertura dei seggi elettorali del referendum costituzionale non posso esimermi di ricordare quale sia la posta in gioco su cui siamo chiamati a pronunciarci domenica prossima. Mi rivolgo naturalmente a coloro che condividono le nostre preoccupazioni sul futuro dell’umanità in conseguenza della gravità raggiunta non solo dalla crisi ecologica, ma anche dalla crisi economica, e sono consapevoli che entrambe dipendono dalla follia di aver finalizzato l’economia all’obbiettivo impossibile di una crescita illimitata della produzione di merci.

Affinché l’economia possa continuare a crescere, questo modello deve estendersi progressivamente a tutto il mondo, come sta avvenendo con la globalizzazione, che è un interesse vitale delle aziende multinazionali e della grande finanza internazionale. Per poter proseguire nell’accumulazione dei loro profitti il grande capitale e la grande finanza non possono non impadronirsi delle materie prime di cui hanno bisogno in tutto il mondo, non possono non vendere i loro prodotti in tutto il mondo, non possono non installare i loro stabilimenti industriali in tutto il mondo. Ma l’estensione dell’economia della crescita a tutto il mondo aggrava sia la crisi ecologica, perché comporta un aumento del consumo di risorse e un aumento delle emissioni inquinanti, sia la crisi economica, perché mette in concorrenza i costi del lavoro dei paesi di più antica industrializzazione con i costi del lavoro molto inferiori dei paesi che si stanno rapidamente industrializzando. Per sostenere questa concorrenza i paesi nord-occidentali riducono i salari e le tutele sindacali dei lavoratori; delocalizzano i loro impianti nei Paesi in cui i costi del lavoro sono più bassi per cui aumenta la disoccupazione, soprattutto tra i giovani; impoveriscono le classi medie; riducono le spese per la sanità, la scuola e i servizi sociali; posticipano l’età pensionabile e riducono le pensioni. Tutte queste misure accentuano la sofferenza sociale e suscitano reazioni di rifiuto sempre più diffuse, che nei paesi in cui vige la democrazia si stanno traducendo in un crescente consenso elettorale ai partiti che sono contrari a questo processo. Anche con motivazioni diverse. Di fronte al rischio di non poter accrescere i loro profitti le multinazionali e la grande finanza stanno perseguendo un preciso disegno di riduzione della democrazia. E non si vergognano di sostenerlo apertamente in documenti in cui si sostiene la necessità di dare più potere ai governi e di ridurre i poteri dei parlamenti, di dare più potere ai governi centrali e di ridurre le autonomie locali, di ridurre le tutele sindacali dei lavoratori, di limitare la possibilità delle popolazioni di protestare contro queste misure, di trasferire le decisioni di politica economica dai governi nazionali ad agenzie economiche e finanziarie internazionali governate da consigli di amministrazione non eletti dalle popolazioni. Fino ad arrivare alle proposte di limitare il diritto di voto. Naturalmente non si tratta di semplici documenti. La realizzazione delle misure indicate in quei documenti viene affidata a politici nazionali che, scavalcando le procedure democratiche, vengono insediati nei posti di potere col compito di attuarle. E che vengono rimossi se non riescono a conquistare il consenso necessario ad attuarle.

In questo contesto si inquadrano la riforma elettorale approvata dal governo Renzi e la riforma costituzionale che siamo chiamati a votare. La posta in gioco è molto alta, come dimostrano le bassezze a cui sono giunti i sostenitori del sì, i pericoli di sfracelli ostentati in caso della vittoria del no, la negazione di quanto scritto in alcuni passaggi della riforma dove non si capivano i confini tra l’ignoranza e la malafede, fino alla falsa scheda elettorale per le elezioni del senato esibita dal primo ministro in televisione, giustificata poi come un fac-simile. Simile a che cosa, se le proposte di eleggere i senatori, avanzate da una parte del suo partito, sono state respinte? L’importanza della posta in gioco è confermata dal sostegno offerto al sì a livello internazionale dai grandi giornali, dai politici al governo di altri paesi, dai dirigenti dell’unione europea, dalla finanza e dal grande capitale internazionale.

Se al referendum vincesse il sì, il potere dell’esecutivo sarebbe rafforzato in maniera preoccupante dal fatto che potrebbe controllare la nomina degli organismi istituzionali preposti a tenerlo sotto controllo:

Se vincesse il sì vincerebbero i rappresentanti italiani degli interessi del capitale e della finanza internazionali, che hanno bisogno della globalizzazione. E la globalizzazione, cioè l’estensione a livello mondiale dell’economia della crescita, aggraverebbe tutti i problemi ecologici e tutti i problemi economici in corso.

Se vincesse il sì vincerebbero coloro che pensano di rafforzare il modo di produzione industriale riducendo la democrazia, quando la democrazia è stata l’altra faccia della medaglia del modo di produzione industriale.

Ma la partita non è chiusa. Coloro che hanno capito che la globalizzazione ha peggiorato la loro vita e la peggiorerà sempre di più, non sono caduti nella rete e hanno votato contro i suoi sostenitori a livello politico. E’ successo con la sconfitta di Cameron nella Brexit e con la sconfitta della Clinton alle presidenziali degli Stati Uniti. E’ successo, in dimensioni più piccole, con le elezioni amministrative di Roma e di Torino, dove sono stati sconfitti i blocchi di potere in cui erano confluiti la finanza, l’industria, i mass media e le istituzioni culturali, che governavano le due città da un quarto di secolo. Siamo consapevoli che nei fronti della resistenza al disegno autodistruttivo della globalizzazione, in cui gli interessi economici prevalgono sulla vita, ci fossero anche componenti sociali non mosse, come noi da motivazioni ecologiche e sociali, ma se non ci fossero state il disegno autodistruttivo sarebbe passato. L’importante è fermarli. Poi cercheremo di costruire una proposta realmente alternativa, che noi crediamo non possa non incentrarsi sulla prospettiva della decrescita felice. Per questo è importante al referendum votare no. Ma dobbiamo essere consapevoli che questa è solo la prima fase del nostro impegno. Per consolidare il risultato occorrerà costruire una diversa prospettiva di futuro, insieme a tutti quelli che stanno dalla nostra parte con motivazioni non egoistiche in difesa di interessi minacciati, ma con un’attenzione premurosa nei confronti della nostra casa comune, dei più deboli, delle giovani generazioni, di coloro che non sono ancora nati. La possibilità di formulare i nostri sì dipende oggi dalla capacità di respingere i loro.

 

Maurizio Pallante

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