di Giorgio Nebbia

Quattrocentodieci. È stato dato gran rilievo, nei giorni scorsi, al fatto che la concentrazione dell’anidride carbonica CO2 nell’atmosfera ha raggiunto il valore di 410 parti per milione in volume (ppmv). Tale concentrazione, misurata da molti anni in una stazione nell’isola di Mauna Loa, nelle Hawaii, in mezzo al Pacifico, sta aumentando fra 2 e 3 ppmv all’anno. Ciò significa che ogni anno circa 15 o 20 miliardi di tonnellate di CO2, il principale gas responsabile del lento continuo riscaldamento del pianeta Terra, si aggiungono ai circa 3.000 miliardi di tonnellate di CO2 già presenti nei 5.000.000 di miliardi di tonnellate di gas dell’atmosfera (leggi anche Non era mai accaduto prima di Maria Rita D’Orsogna, ndr).

L’anidride carbonica immessa nell’atmosfera (circa 30-35 miliardi di tonnellate all’anno) proviene principalmente dalla combustione dei combustibili fossili, attualmente circa 14 miliardi di tonnellate all’anno fra petrolio, carbone, gas naturale.

Altre fonti di CO2 sono la produzione del cemento (oltre 4 miliardi di tonnellate all’anno), la combustione di rifiuti, gli incendi delle foreste e alcune attività agricole. Una parte, circa la metà di tutta la CO2 immessa nell’atmosfera è assorbita dalla vegetazione sui continenti e dal mare nel continuo contatto fra l’atmosfera e la superficie degli oceani.

 

Per secoli la concentrazione nell’atmosfera della CO2 è rimasta relativamente costante a circa 280 ppmv; il progressivo, sempre più veloce aumento di tale concentrazione fino agli attuali 410 ppm e oltre, è cominciato all’inizio del Novecento quando il petrolio e poi il gas naturale si sono affiancati al carbone come fonti di energia per la produzione di crescenti quantità di merci richieste da una crescente popolazione mondiale. I processi naturali di “depurazione” dell’atmosfera non ce l’hanno fatta più e una crescente parte della CO2 è rimasta nell’atmosfera stessa, trattenendo una parte del calore solare.

È nelle merci, nei processi della loro produzione, nell’uso che ne viene fatto e nei processi di eliminazione dei rifiuti, quindi, la vera causa del riscaldamento planetario che sta spaventando i governanti del mondo – e gli abitanti della Terra alle prese con bizzarrie climatiche, periodi di siccità o di piogge improvvise, progressiva lenta ma apprezzabile fusione dei ghiacci permanenti e lento aumento della superficie dei mari.

È abbastanza curioso che molti considerino “merce” una parolaccia; eppure tutte le cose usate per soddisfare i bisogni umani di spostarsi, nutrirsi, comunicare, abitare, tutti gli oggetti commerciati, vestiti e carne in scatola, automobili e scarpe, gasolio e telefoni cellulari, giornali ed elettricità, eccetera, sono merci, fabbricate usando e trasformando le risorse naturali vegetali, animali, minerarie del pianeta.

Le stesse operazioni finanziarie, il prodotto interno lordo, lo spostamento di ogni soldo, si tratti di euro, di dollari o di yuan, sono accompagnati da spostamenti di merci, di materia ed energia. I 60.000 miliardi circa di euro che rappresentano il prodotto interno lordo mondiale annuo sono associati al movimento, ogni anno, di circa 50 miliardi di tonnellate di merci, prodotti agricoli, minerali, navi, metalli, plastica, mobili, cemento, pane, eccetera, e acqua, 4.000 miliardi di tonnellate, merce anche lei.

E tutto questa materia si ritrova, durante la trasformazione e dopo l’uso, come “merci usate” sotto forma di scorie, rifiuti solidi, liquidi e gassosi che finiscono nel suolo, nelle acque, nell’atmosfera, peggiorandone la qualità “ecologica”. Fra questi quella CO2 di cui si parlava all’inizio, e altre decine di miliardi di tonnellate di materiali.

In altre parole esiste un rapporto diretto fra le modificazioni dell’ambiente e la produzione e l’uso, l’esistenza stessa, delle merci.  Nel 1970 Barry Commoner ha scritto che le alterazioni annue dell’ambiente planetario dipendono dal numero di abitanti della Terra, moltiplicato per i chili di merce usati in media da ciascuna persona in un anno, moltiplicato per la “qualità” di ciascuna merce, intesa come quantità di energia, di minerali, di altri prodotti, di acqua richiesta e di rifiuti generati per ogni chilo di merce usata.

“Qualità merceologica” che, a ben vedere, rappresenta il vero “valore” di una merce o di un servizio. Gli ambientalisti hanno inventato degli indicatori degli effetti ambientali chiamati “impronta” ecologica, da valutare attraverso l’analisi del “ciclo vitale”, eccetera: di merci stanno parlando.

Ho avuto la sorte di essere sbeffeggiato per molti decenni di insegnamento universitario perché la mia disciplina era la merceologia; a molti miei colleghi faceva ridere l’esistenza stessa di un campo di studio che si occupava di frumento e carbone, di alluminio, e di olio, di merci, insomma, dimenticando, o forse senza aver mai saputo, che Carlo Marx, nel primo capitolo del primo libro del Capitale, quello intitolato La merce, dice che intende svolgere la critica dell’economia politica capitalistica cominciando dal concetto di valore di scambio. E precisa che le merci hanno anche un valore d’uso che però è l’oggetto di studio di una speciale disciplina, la merceologia (einer eigenen Disziplin, der Warenkunde).

È proprio questa ultima forma di valore quella da cui dipende il maggiore o minore danno ambientale, il “costo” ambientale, delle attività umane. Se si vuole rallentare gli effetti nefasti degli inquinamenti e dei mutamenti climatici si può agire sulla diminuzione della massa delle merci usate e sprecate nei paesi ricchi – perché i paesi poveri di più merci avranno bisogno, se non altro per uscire dal buio della miseria e delle malattie – ma soprattutto sulla modificazione delle merci esistenti, su una seconda tecnologia. Un bel lavoro per ingegneri, chimici, biologi per tutto l’intero secolo.

.

Fonte: Eddyburg

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *