Di Karl Krähmer, Circolo MDF di Torino

La COP di Madrid ha fallito. Nonostante tutta l’attenzione che grazie ai Fridays For Future quest’anno è stata rivolta finalmente all’emergenza climatica.

Perché? Ovviamente di ragioni se ne possono individuare molte, molto si parla per esempio dalle resistenze specifiche di alcuni paesi. Noi crediamo però che una ragione importante sia che la crisi di fronte alla quale ci troviamo necessiti di cambiamenti profondi e strutturali. E forse, come sottolinea anche questa lucida analisi di Guido Viale su Comune-Info, è illusorio aspettarsi che questi cambiamenti arrivino con buona volontà dall’alto, ma piuttosto bisogna costruirle dal basso, nel qui ed ora.

Però rimaniamo sulle ragioni del fallimento della COP e del perché questi cambiamenti profondi (e cioè, quantomeno la riduzione di produzione e consumo nella parte ricca del mondo) sono necessari.

Un assunto cardine su cui si basa qualsiasi approccio mainstream alla risoluzione della crisi climatica, sia che esso si chiami sviluppo sostenibile, green economy o economia circolare, dalle grandi conferenze internazionali ai piccoli impegni di tanti comuni, è quello della possibilità di disaccoppiare la crescita economica dall’evoluzione degli impatti ambientali. Cioè: + Pil e – CO2.

Il guaio è che non c’è nessuna esperienza empirica per questo. Anzi, come sintetizza magistralmente il report “Il mito della crescita verde. Perché non è possibile disaccoppiare la crescita economica dalla crescita dell’impatto ambientale e del consumo delle risorse: prove e argomentazioni” dell’European Environmental Bureau, di cui MDF ha curato la traduzione italiana (link) (mentre l’originale è disponibile qui, ci sono ampie prove che confutano questa ipotesi sia empiricamente che teoricamente.

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Il report valuta innanzitutto di che tipo di disaccoppiamento avremmo bisogno: dovrebbe essere assoluto (cioè mentre il Pil cresce, l’impatto ambientale complessivamente diminuisce), globale, permanente, di entità e velocità sufficiente per raggiungere almeno gli accordi di Parigi per quanto riguarda l’emergenza climatica. Inoltre questo disaccoppiamento dovrebbe essere così consistente rispetto a tutte le risorse che non si spostano i problemi semplicemente altrove (esacerbando i noti problemi di diseguaglianze globali causate dal nostro modello di sviluppo) o su altre risorse e impatti: anche se, ipoteticamente parlando, la coltivazione di piante per agrocarburanti potesse sostituire le fonti fossili e ridurre le emissioni CO2 dai trasporti, questo entrerebbe in forte conflitto con la produzione di piante per l’alimentazione umana e la biodiversità degli ecosistemi naturali, risolvendo forse in parte la crisi climatica, ma soltanto per crearne altre.

Nella seconda parte secondo questa griglia vengono esaminate molte ricerche empiriche. Il risultato è, se si crede nello sviluppo sostenibile, sconfortante per la sua omogeneità in casi molto diversi. I casi in cui il disaccoppiamento è stato effettivamente rilevato non corrispondono mai ai criteri sopra esposti, ma il disaccoppiamento riscontrato è stato sempre solo relativo (quindi l’impatto ambientale continua a crescere col Pil, solo che lo fa più lentamente) e∕o locale e∕o temporaneo e∕o di entità e velocità insufficienti. Infatti, per un’idea globale del problema, basta considerare il fatto che negli ultimi decenni ed anni, nonostante tutti gli sforzi, tutta l’innovazione tecnologica e tutti gli aumenti di efficienza raggiunti, le emissioni globali di gas serra non sono diminuite, ma continuano anzi a crescere.

Infine, la terza parte del documento si dedica alla ricerca del perché di questo risultato così deludente. Sette ragioni vengono individuate nella letteratura scientifica; L’aumento della spesa energetica, gli effetti rimbalzo, lo spostamento dei problemi, l’impatto sottostimato dei servizi, il potenziale limitato del riciclo, il cambiamento tecnologico insufficiente e inappropriato e la delocalizzazione dei costi.

L’aumento della spesa energetica significa che man mano che si esauriscono i giacimenti più facilmente accessibili di una risorsa naturale (che ovviamente vengono sfruttate per prime), rendendone sempre più costosa (non solo in termini economici, ma anche di impatto) l’estrazione. In riferimento alle risorse energetiche, peggiora il rapporto tra quantità di energia da investire per estrarre un tot di energia (EROI); alla fine degli anni ‘90 per esempio investendo la quantità di energia contenuta in un barile di petrolio se ne potevano estrarre altri 33 (Hall et al., 2014). Considerando anche le fonti rinnovabili, nel 2018 questo rapporto è di 6:1 (Capellán-Pérez et al. (2018)), nonostante tutti gli aumenti dell’efficienza. E si stima che transitando fortemente verso le rinnovabili questo potrebbe ridursi ulteriormente a 3:1 (ibid.), corrispondendo dunque a un costo dell’energia molto più elevato. Considerando quanto è fondamentale il costo dell’energia per la crescita economica, questo sottolinea quanto difficile è coniugare una base energetica rinnovabile con un sistema socio-economico che punta alla crescita.

Gli effetti rimbalzo si riferiscono al fatto che aumenti di efficienza grazie all’innovazione tecnologica sono facilmente compensati da aumenti di consumo. Per esempio: I frigoriferi che sono diventati sempre più efficienti ma anche più grandi,i  motori sempre più efficienti che si trovano in macchine sempre più grandi, ma anche i risparmi ottenuti grazie a un buon isolamento termico della propria casa poi investiti nel biglietto aereo per il viaggio intercontinentale per stare caldi d’inverno anche fuori casa….

Per spostamento dei problemi si intende, come accennato sopra, che risolvere problemi in un campo possono produrne in altri. Le auto elettriche per le cui batterie i materiali vengono estratti in aree di guerra civile con impatti sociali ed ecologici devastanti; l’energia nucleare che (forse) riduce le emissioni di CO2, ma pone il problema dei suoi rifiuti; le politiche di rinnovamento urbano ecologico che portano a aumenti dei valori immobiliari ed espellono così gli abitanti più deboli.

L’impatto sottostimato dei servizi è legato a due aspetti importanti. Da un lato l’economia dei servizi non può esistere senza un’economia reale: I prodotti serviti vanno prodotti, così come locali e attrezzatura utili al loro consumo e trasporto. Dall’altro i servizi stessi, soprattutto in forma di consumo di energia per i servizi digitali, consumano molto più di quanto non si immagini: si stima che la percentuale di energia elettrica consumata per internet possa aumentare dai 4,6% del 2012 a 51% nel 2030 (Andrae e Edler, 2015)..

Il potenziale limitato del riciclo si riscontra da un lato nel fatto osservabile che nonostante tanti sforzi fatti, i livelli di riciclo rimangono piuttosto bassi, dall’altro nel fatto tanto banale quanto fondamentale che si può solo riciclare quanto già prodotto che però in un’economia crescente si produce sempre di più, per cui un’economia del tutto circolare e allo stesso tempo crescente è un ossimoro.

Il cambiamento tecnologico insufficiente e inappropriato è un fattore che anche se si produce dell’innovazione, non è per niente scontato che questa riguardi effettivamente I fattori di produzione più rilevanti per la sostenibilità – le risorse naturali non sono generalmente il fattore di produzione più costoso (come piuttosto lavoro e capitale) e non sono dunque il primo target di innovazione. Le innovazioni poi possono benissimo peggiorare la situazione, basti pensare al fracking, ma anche altre nuove tecnologie che negli ultimi anni hanno di nuovo aumentato l’attrattività, almeno temporaneamente, delle fonti fossili. Dopodiché è molto difficile l’effettiva sostituzione di tecnologie inquinanti: l’installazione di impianti per energie rinnovabili per esempio ha più che altro aumentato la quantità totale di energia disponibile, piuttosto che sostituire le fonti fossili. E poi l’innovazione sembra essere troppo lenta per poter contrastare la crescita totale dell’economia. Anche perché prima vengono effettuati i cambiamenti più facili, contribuendo a quello che Mauro Bonaiuti chiama rendimenti decrescenti, dell’innovazione tecnologica in questo caso.

Infine, la delocalizzazione dei costi. Quando si paragonano le nostre città di oggi a quelle di quarant’anni fa pare ovvio che sono stati fatti grandi progressi nella tutela dell’ambiente. Ma questo è vero solo localmente. In buona parte l’aumento della qualità ambientale e dunque di qualità della vita nelle nostre città corrisponde sostanzialmente alla delocalizzazione delle industrie altrove, in Cina in primis, ove infatti la qualità dell’aria ricorda le più cupe descrizioni delle città industriali inglesi ottocentesche fatte da Friedrich Engels. Se infatti poi si guarda alle impronte ecologiche (che contano l’impatto dei prodotti e servizi da noi consumati indipendentemente dal loro luogo di produzione), ci si rende facilmente conto che non siamo affatto diventati meno dannosi, anzi le impronte ecologiche dei paesi ricchi sono aumentate, siamo solo stati bravi a esternalizzare le conseguenze delle nostre azioni altrove. Un altrove a volte anche molto vicino, quando nelle nostre periferie gli strati sociali più deboli vivono nei luoghi con la peggiore qualità ambientale, soffrendo infatti di una maggiore aspettativa di vita: vicino all’autostrada, alla fabbrica (Taranto!) o alla discarica – più spesso però un altrove in altre parti del mondo.

Molte buone ragioni dunque per poter capire che sia destinato a fallire un percorso come quello delle COP, della politica ambientale nazionale, europea ed internazionale finchè punta alla quadratura del cerchio di una crescita economica con una riduzione dell’impatto ambientale, il mito del disaccoppiamento e della crescita verde insomma.

Servono invece cambiamenti profondi e strutturali invece, la decrescita, che partendo dalla consapevolezza che c’è bisogno di una riduzione in termini assoluti di produzione e consumo (una riduzione governata, selettiva ed equa), vi aggiunge l’altra consapevolezza che questa riduzione se sapientemente governata può portarci una qualità della vita anche più elevata, tirandoci fuori dal girone infernale del lavoro e del consumo ossessivi e senza senso reale. La sfida di una tale proposta, lo sappiamo, è ingente, ma va affrontata, non semplicemente aspettando illuminazioni dall’alto, né accontentandosi di approcci individualistici limitati come il consumo critico e la semplicità volontaria (che sono però utili punti di partenza se svolti con coscienza politica), ma nella costruzione collettiva dal basso sia di concreti modi di vivere diversi (e c’è ne sono tante, per esempio in Italia: www.italiachecambia.org, ma anche in Rojava e tante parti del mondo) sia di una consapevolezza culturale e politica che può preparare il terreno a trasformazioni più ampie.

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