Nel rispondere vorrei fare alcune premesse. Innanzi tutto, il testo di Cabras tocca per almeno due terzi della sua lunghezza, temi distanti da quello su cui è concentrato il nostro lavoro: la sostenibilità ambientale dell’alimentazione. Le considerazioni a esso più pertinenti sono dunque quelle che si pongono sui due piani pragmatico e tecnico. Quelle, per così dire, filosofiche sono estranee alle tematiche che il nostro gruppo affronterà.
Aggiungo che sul piano pragmatico e nel breve periodo le mie posizioni sono molto vicine a quelle di Cabras, sul piano tecnico e nel medio periodo ne sono divergenti; sul piano filosofico e nel lungo periodo ne sono agli antipodi.

Premetto anche che credo sia il caso di non usare più termini come “vegetarianesimo” o vegetarianismo” che sanno tanto di setta religiosa o comunque di posizioni ideologiche. Non credo sia appropriato definire le mie scelte alimentari come “vegetarianesimo” più di quanto non sia appropriato, poiché ho installato sulla mia casa dei pannelli solari, parlare di “solarianesimo” o, poiché utilizzo l’acqua piovana, parlare di “pluvianesimo”. Una scelta alimentare non è un “…ismo” o un “…esimo”, è una relazione ecosistemica. Con tutte le implicazioni, anche culturali ed etiche del caso, naturalmente, ma innanzi tutto questo: una relazione funzionale fra sé e l’ecosistema di cui si è parte.

Detto ciò, comincio dal primo aspetto (pragmatico e di breve periodo). E’ evidentissimo che l’ipotesi di una transizione immediata dell’umanità verso un’alimentazione basata sui cibi vegetali è priva di fondamento realistico. Dobbiamo pensare piuttosto a una transizione lenta che passi attraverso fasi intermedie in cui il contributo di cibi animali sia sempre più ridotto fino a divenire residuale. Dunque lo scenario pratico proposto da Cabras nella parte finale del suo testo, se visto come fase di transizione, è esattamente quello verso cui occorre orientarsi. Il quadro generale che egli traccia inoltre è sotto ogni altro aspetto condivisibile e questa è certamente una componente positiva della sua riflessione. Purtroppo è l’unica.
Vorrei a questo punto precisare che pragmatismo non deve mai significare resa. E’ esatto ad esempio affermare che «la convinzione sulle ragioni del vegetarianesimo in quanto tale» non è «molto diffusa nel nostro paese, né radicata nella nostra storia e nella nostra cultura» infatti 6 milioni appena di vegetariani, di cui solo 800.000 vegani, sono appena il 10% della popolazione. Davvero pochi (forse). Ma allo stesso modo è esatto affermare che è assente la convinzione sull’opportunità di non usare l’automobile, o sull’attuare ogni possibile accorgimento per il risparmio energetico in casa o perfino sulla corretta gestione dei rifiuti. Dunque? Rinunciamo a tutto? Non mi pare il caso.

Passiamo al secondo aspetto (tecnico e di medio periodo). Come disse Alexander von Humboldt, «uno stesso territorio può dar da vivere a un cacciatore, a dieci pastori o a cento contadini». Ora, tralasciando (speriamo) il cacciatore, e soffermandoci sul confronto pastore-contadino, dovremmo domandarci quali razionali considerazioni possono orientarci verso un modo di produrre il nostro cibo così dispendioso in termini di territorio quale è la zootecnia, sia pur praticata su scala ridottissima come lo stesso Cabras auspica. Perché scegliere un metodo produttivo dotato di un’efficienza di conversione delle proteine che è appena del 6% nei bovini e di poco più alta nelle altre specie animali? Perché fare nostra una simile cultura dello spreco? Coerentemente dovremmo accettare la legittimità di sprechi analoghi nel settore energetico, nei trasporti, nella gestione dei rifiuti e dell’acqua. Cosa resterebbe allora della cultura della Decrescita? Oppure dovremmo accettare l’incoerenza: razionali, oculati, ecosostenibili in ogni altro campo, spreconi nell’alimentazione. E’ autoevidente che entrambe queste alternative sono inaccettabili.
Cabras parla di destinare alla zootecnia contadina territori marginali non altrimenti destinabili. Sia pure. Ma, così come marginali sono questi territori, marginali sono questi discorsi. La realtà è che la gran parte dell’umanità vive nelle zone tropicali o temperate del pianeta, dove l’agricoltura è praticabilissima con buona produttività e l’allevamento pertanto non è necessario.

Metto a questo punto un paletto perché per quanto riguarda le tematiche pertinenti al lavoro del gruppo di MDF sull’alimentazione il discorso si pone esclusivamente in questi termini e pertanto si ferma qui. Chi è interessato a esso e solo a esso può interrompere la lettura a questo punto.
Il testo di Cabras, dicevo,  allarga però enormemente l’orizzonte del discorso toccando temi ulteriori che considero prematuro affrontare ma che, essendo stati affrontati, impongono una risposta.

E’ riduttivo affermare che la Decrescita sia semplicemente un diverso approccio ai sistemi economici. Maurizio Pallante non perde occasione di affermare (e io concordo) che essa parte sì da una critica dell’economia dominante ma la trascende essendovi nella Decrescita implicazioni filosofiche che la rendono potenzialmente in grado di acquisire lo spessore di un nuovo rinascimento culturale. Ecco, sono proprio queste potenzialità quelle che fanno la differenza fra “un altro mondo possibile” e il classico “cambiare tutto affinché tutto resti com’era”.
Ancora Maurizio Pallante, nel rispondere a un lettore che aveva commentato un suo articolo scrisse: «quando si comincia a delineare un nuovo sistema di pensiero (…) le persone tendono a leggerlo in base ai criteri d’interpretazione fondati sul sistema di pensiero precedente e, quindi, a equivocarle».
Ecco, è questo equivoco che io vedo nelle parole di Cabras: il non concepire in termini realmente altri quell’altro mondo possibile di cui da più parti si parla per ridurlo infine a una variazione sul tema di questo stesso mondo.

Parlando di cultura contadina, dobbiamo fare attenzione infatti a distinguere fra un’attenzione analitica e critica nei confronti del patrimonio di esperienze da essa accumulate nel corso dei millenni e una mistica della civiltà contadina che si traduce in un’accettazione acritica di tutto ciò che odora di tradizione, e che è patrimonio più di correnti di pensiero come il Bioregionalismo che non della Decrescita. Questo atteggiamento pacatamente analitico risulta obbligato alla luce di qualche semplice riflessione.
E’ innanzi tutto irrealistico supporre che gli eventi planetari di cui siamo spettatori, protagonisti e vittime siano frutto di un’improvvisa sterzata dell’umanità, avvenuta senza preavviso in questi ultimi decenni. Non ha molto senso pensare a un’umanità che per millenni si comporta assennatamente e poi improvvisamente impazzisce e distrugge il pianeta. Noi stiamo vivendo in realtà l’esito di un processo storico plurimillenario che ebbe origine nel neolitico e si è andato evolvendo secondo un andamento analogo a quella curva esponenziale che abbiamo imparato a conoscere ai tempi dei primi studi del MIT sulla crescita: una curva che su gran parte del suo dominio cresce lentissimamente, con apparenza quieta e pacioccona, poi improvvisamente si impenna tendendo con incontrollabile rapidità, nell’astratto modo della matematica a proiettarsi verso l’infinito, nel più concreto mondo della biosfera a cozzare contro il muro dell’insostenibilità. Dico tutto ciò per chiarire come le radici di quanto stiamo vivendo oggi siano immerse proprio in certi aspetti di quella cultura contadina che troppi teorici dell’ “altro” mondo oggi osannano incondizionatamente.
E’ fondamentale in altre parole acquisire una visione storica di lungo periodo della genesi della società della crescita per mettersi al riparo da equivoci grossolani che possono portarci a considerare parte del nostro patrimonio culturale elementi che al contrario non ci appartengono.
Ma, si dirà, la società industriale ha distrutto la cultura contadina. Cito ancora Pallante: «Già negli anni Quaranta Schumpeter definiva “distruzione creatrice” la capacità innovativa su cui si basa la forza del capitalismo. Insomma affermava che per continuare a produrre e vendere sempre di più bisogna distruggere sistematicamente quello che si è fatto in precedenza». Bene, l’argomento di cui parliamo è un esempio di ciò: la società della crescita, proprio per questa esigenza di continua distruzione interna, ha distrutto la sua ormai inadeguata versione contadina e l’ha sostituita con la versione industriale che oggi conosciamo. Era il momento storico in cui la curva esponenziale cominciava la sua impennata, un’impennata già insita nelle premesse storiche.

Un ultimo punto riguarda l’immagine rigidamente statica che Cabras ci offre del cosiddetto ordine naturale: uno stato eterno e immutabile cui noi null’altro dobbiamo fare che adeguarci e soggiacere. E poiché quest’ordine naturale comprende in larga misura la violenza e la sopraffazione… eccetera. Anche questa è una visione vicina, più che alla Decrescita, al Bioregionalismo. Nonché, quando viene applicata anche all’interno della specie umana, al darwinismo sociale. Ripartiamo da zero e andiamo indietro nel tempo quanto basta per assistere alla nascita del primo organismo dotato di sistema nervoso centrale. Insieme a lui apparve sulla Terra quella inedita cosa che è la capacità di operare delle scelte. E poiché l’interazione individuo-ambiente è bilaterale, da quel momento le scelte di innumerevoli individui contribuirono a plasmare l’ambiente e le relazioni fra le sue parti. Ovvero contribuirono a plasmare il cosiddetto ordine naturale. E non hanno mai cessato di farlo; lo fanno ancora. Lo facciamo ancora. Voglio dire con ciò che quel che noi chiamiamo “ordine naturale” è in realtà un’entità dinamica, mutevole e che la sua fisionomia attuale né era a priori inevitabile né è oggi immutabile. E noi, tutti noi esseri senzienti, abbiamo una parte non trascurabile nel determinarne gli assetti futuri. Porre dunque l’esistenza della violenza in natura come fatto giustificatorio della pratica della violenza da parte degli uomini in quanto parte della natura è privo di fondamento. Ma di più: non è atteggiamento diverso da quello del signor Rossi che giustifica il suo inerte concedersi al sistema col dire: «cosa posso farci io? E’ così che va il mondo.» La differenza fra il discorso del signor Rossi e quello di Cabras è solo nella scala temporale: dalla scala dell’evoluzione sociale a quella dell’evoluzione biologica, ma a parte ciò, una volta di più, è il loro sistema di pensiero insinuatosi sotto mentite spoglie nel nostro.
Non posso inoltre fare a meno di notare che gli appelli all’ “ordine naturale” vengono sempre con riferimento alla presenza in esso di “violenza e sopraffazione”, mai ai numerosi casi di rapporti simbiotici fra le specie o di solidarietà fra membri della stessa specie, pur ampiamente esistenti all’interno dell’ “ordine naturale” presente.
Noi dunque, noi esseri senzienti, noi esseri capaci di operare scelte, possiamo scegliere. Possiamo ad esempio scegliere di somigliare all’oca selvatica, presso la quale è assente ogni forma di solidarietà al di fuori del confine della famiglia mononucleare, oppure ai tanto bistrattati topi i cui legami di solidarietà giungono al punto che le madri di una stessa comunità allevano collettivamente i figli. Entrambi sono esempi di ciò che è l’ordine naturale nella sua fase evolutiva presente. E’ in nostro potere dare il nostro contributo di specie a far pendere la bilancia nell’una o nell’altra direzione imprimendo così la spinta verso l’una o l’altra via, fra gli infiniti futuri possibili, alla storia a venire della vita sulla Terra. Perché l’ordine naturale, ripeto, siamo noi.

Un’ultima considerazione: il riferimento all’ “altermondista” José Bovè mi ha fatto ricordare che Bovè non è, a quanto si racconta, solo sui lupi che ritiene lecito sparare. Intervenni tempo fa a un incontro romano cui partecipava un suo seguace il quale a un certo punto, raccontando di scontri fra i gruppi francesi di Bovè e la polizia in cui da entrambe le parti si usarono armi da fuoco, deplorò che in Italia tali cose non accadessero. Ancora una volta domando: è questo il mondo che vogliamo?

 

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