Pochi giorni fa è stato reso noto l’esito delle attese elezioni presidenziali in Brasile: con il 54% dei voti si è aggiudicata la vittoria Dilma Rousseff, rappresentante del Partido dos Trabalhadores, battendo il social-democratico Josè Serra, la verde Marina Silva e altri sette candidati minori.

Rousseff è considerata l’erede politica del presidente uscente Luiz Inacio Lula da Silva, che l’ha personalmente sostenuta durante tutta la campagna elettorale e di cui la neoeletta seguirà certamente le orme a livello amministrativo, anche se la continuità potrà non essere perfetta e totale.

Ritengo che vi siano tre aspetti da analizzare brevemente in base ai quali trarre qualche considerazione su questo avvenimento, tre settori della politica nazionale che saranno molto importanti per il Brasile e non solo.

Il primo è quello ambientale. Come sappiamo la foresta amazzonica e l’ecosistema brasiliano rappresentano un elemento fondamentale per l’equilibrio ecologico del pianeta. Tuttavia, le ricchezze che queste aree offrono sono vastissime e sono numerosi anche coloro che intendono sfruttarle, spesso senza riguardo per le popolazioni e l’ambiente locali.

Malauguratamente, a fronte di una linea teoricamente improntata sul rispetto ambientale, il governo Lula è stato spesso alla prova dei fatti favorevole a iniziative anche invasive e dannose, come l’installazione di grandi centrali idroelettriche in zone assai delicate quali Rio Sao Francesco e fiume Xingù. Fallimentare è stata poi la riforma agraria proposta dall’ex presidente, che per qualche tempo è stata addirittura il suo cavallo di battaglia, salvo poi essere accantonata: le grandi monocolture destinate all’esportazione rimangono prevalenti, così come i grandi latifondi concentrati per lo più nella Amazzonia Legale, un’area istituita dal governo allo scopo di tutelare la biodiversità e l’ecosistema che ospita.

La politica di sostegno ai piccoli agricoltori è stata implementata, ma la sproporzione a favore delle grandi multinazionali dell’agrobusiness rimane enorme (le quindici aziende principali hanno ricevuto la stessa quantità di risorse destinata a quattro milioni di piccoli coltivatori).

È stato invece portato avanti a ritmi serrati il Programma di Accelerazione della Crescita, di cui era responsabile proprio la neo-presidente Dilma Rousseff, che ha investito quasi 200 miliardi di euro principalmente in infrastrutture come strade, autostrade, treni ad alta velocità e abitazioni. In questo settore purtroppo non si può essere molto ottimisti: la continuità con il governo Lula e le competenze specifiche che rivestiva al suo interno la Rousseff fanno temere un incremento della tecnologizzazione, della cementificazione e dello sfruttamento intensivo del delicato territorio brasiliano.

Un altro aspetto molto importante è quello sociale. Lula, così come la sua succeditrice, hanno un passato segnato da forti legami con la base sociale: l’ex presidente è stato un sindacalista e ha fondato con Chico Mendes il Partito dos Trabalhadores (anche se una fase della sua formazione politica fu connotata da un marcato anticomunismo), Dilma Rousseff, pur provenendo da una famiglia agiata, partecipò attivamente alla lotta rivoluzionaria degli anni sessanta, rimediando anche qualche anno di carcere. Apparentemente, la politica sociale portata avanti dal governo negli ultimi anni è fortemente orientata alla riduzione della povertà e alla tutela delle classi meno agiate.

Tuttavia, con uno sguardo più ampio, ci si può accorgere che non è esattamente così: iniziative come la bolsa familia (un sostegno al reddito) o fome zero (un programma contro la fame e la povertà) hanno contribuito ad offrire un aiuto certamente apprezzato nell’immediato da chi si trovava in condizioni critiche, ma in ultima analisi si tratta di politiche caratterizzate da una natura puramente assistenzialista e prive di una strategia a lungo termine mirata a sconfiggere, o quantomeno affrontare, il problema dell’indigenza.

Non per niente uno degli elementi di novità proposti da Rousseff è proprio una politica di interventi migliorativi nelle favelas, anche se – visti i precedenti – non c’è da aspettarsi molto. Di contro, è stata mantenuta una linea sociale ed economica favorevole alle esportazioni, agli interventi di investitori stranieri e all’aumento del prodotto interno lordo (che è effettivamente avvenuto, ma a fronte di una redistribuzione iniqua della nuova ricchezza).

Infine, è opportuno volgere uno sguardo anche alla politica estera, fondamentale in una zona particolarmente instabile come l’America Latina. Inutile dire che gli Stati Uniti hanno provato a esercitare la propria influenza anche in Brasile, come testimonia l’impegno del Segretario di Stato Hilary Clinton nel tessere relazioni diplomatiche con il governo locale da un lato e nell’organizzare una rete d’appoggio interna, che fa riferimento all’ambasciatore Thomas Shannon, dall’altra.

Il Brasile è di importanza strategica per gli americani, tanto che la fallimentare politica estera di Bush prima e di Obama poi sta concentrando le proprie forze, ormai sempre più fiacche, proprio sullo stato sudamericano. Tuttavia, Lula e il suo entourage hanno sempre resistito alle insistenze occidentali: i buoni rapporti con le ‘canaglie’ Chavez e Morales, con Cuba e con l’Iran e la condanna del colpo di stato in Nicaragua lo testimoniano.

Rousseff, ex combattente e in gioventù nemica degli Stati Uniti, non è certo la persona ideale con cui avviare un nuovo tentativo di dialogo. Sembra quindi che almeno in questo campo le prospettive siano buone e orientate verso il mantenimento e il rafforzamento della sovranità nazionale brasiliana

Tirando le somme tuttavia, non pare che ci siano i presupposti per considerare questa elezione come il punto di partenza per un cambiamento positivo.

Il delicato ecosistema brasiliano è sempre più minacciato da compagnie energetiche, multinazionali dell’alimentazione e altri soggetti che antepongono l’utile e il progresso alla salvaguardia dell’ambiente, spesso senza neanche ripararsi dietro al pur poco credibile paravento dello sviluppo sostenibile.

La situazione sociale è altresì molto grave: a fronte di una vigorosa crescita dell’economia nazionale, la forbice fra le classi più agiate e quelle più povere è sempre più ampia e manca la capacità e forse la volontà di proporre soluzioni definitive al problema, che viene fronteggiato solamente attraverso iniziative episodiche e populistiche.

Rimangono invece in piedi l’indipendenza politica del Brasile sullo scacchiere internazionale e la volontà di fare fronte comune con gli altri paesi dell’America Latina piuttosto che con ingombranti alleati occidentali. Attenzione però: se finora sono falliti i tentativi di approccio basati sulla diplomazia, sulla manipolazione dell’opinione pubblica e sul controllo della politica interna, è ancora aperto il fronte economico, poiché il Brasile guarda con troppa disinvoltura a un liberismo che è già stato fatale a molti.

La soluzione è quella di puntare sull’economia locale – magari prendendo spunto dal programma di nazionalizzazione delle imprese proposto da Zè Maria, uno dei candidati alla presidenza –, su una politica sociale e non banalmente assistenzialista e sulla tutela di un patrimonio ambientale ma anche culturale e antropologico unico al mondo. Speriamo che dal primo gennaio del 2011, quando diventerà formalmente presidente del Brasile, Dilma Rousseff abbia un occhio di riguardo per queste questioni.

Fonte: Il Cambiamento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *