Il mercato europeo dell’auto è in discesa libera. Lo scorso mese il calo è stato del 16,1%. Ma non si trattava del primo mese in cui accadeva una cosa del genere: il trend, così pesantemente negativo, non si ferma da ben sette mesi. In quelli precedenti, inoltre, non è che la cosa fosse andata così bene. Le immatricolazioni calano dal 2008 e presumibilmente continueranno a calare, ancora.

Pensare che una delle prime misure adottate dagli Stati Europei – e non solo – per fronteggiare la crisi economica è stata il salvataggio delle case automobilistiche. Europa, America e Cina hanno infuso capitale pubblico in queste aziende nel timore che un loro crollo avrebbe dissestato l’economia in maniera ancora pesante di quanto già non fosse accaduto. Probabilmente era vero ma, dato come stanno andando le cose, l’unico vantaggio è stato quello di allungare i tempi dell’agonia.

La Francia, la Germania, il Regno Unito, l’Italia e la Spagna hanno registrato una flessione tra il 18% e il 37%. La Fiat, che il contribuente italiano ha finanziato con i propri risparmi nella vana speranza che continuasse a impiegare milioni di operai, ha registrato solo nel mese di ottobre un calo del 32,7% e del 16,3% dall’inizio dell’anno. È chiaro a questo punto che il settore sia in crisi irreversibile. Le uniche case che rimangono a galla – per ora – sono quelle che investono nella ricerca e producono gli ultimi ritrovati della tecnica su larga scala – anche in vista dell’esaurimento del combustibile fossile che, a detta della stessa British Petroleum, dovrebbe finire nel 2050. Ma anche loro non potranno pensare di vendere ogni anno la stessa quantità di macchine che smerciavano solo fino a qualche tempo fa – oltretutto l’alta intensità automobilistica ne avrebbe comunque saturato il mercato in molti Paesi. Per questo molte aziende hanno convertito parte delle loro fabbriche e dal produrre automobili sono passate a produrre qualcosa di più vendibile, come le componenti per turbine eoliche (è il caso della Ford a Blanqueford). Si tratta di una soluzione che presumibilmente reggerà poco – fino alla prossima bolla – ma che nell’immediato è sempre meglio di produrre merci da tenere in magazzino aspettando la prossima sovvenzione statale.

Ovviamente, di elaborare una cosa del genere alla Fiat non se ne parla nemmeno: il gruppo Fiat-Chrysler va avanti per la sua strada, accada quel che accada. In America, a fronte di iniezioni sostanziosissime di capitale statale, perdita di posti di lavoro, riduzione dei salari e delle giornate di riposo, l’intensificazione dei ritmi di produzione e la rinuncia al diritto di sciopero, il mercato dell’auto è comunque destinato al fallimento. Non si tratta di uno scherzo: tutte queste misure – che sembrano uscire da un romanzo di Verga – sono quelle degli accordi tra Fiat e Chrysler che hanno consentito alle due case automobilistiche di mantenersi in vita – e ai suoi proprietari di continuare a guadagnare come se fossimo in pieno boom economico.

L’ineluttabilità del tracollo è reale anche se il calo delle vendite della Fiat in Europa sembra in qualche modo annullato dal successo della Chrysler, che avrebbe ottenuto un +37% nel mercato statunitense: i dati vanno letti a fondo. Dire che la Chrysler ha avuto un aumento delle vendite non significa che il settore sia in ripresa. La motivazione è che questo aumento è dovuto esclusivamente alle società di noleggio e alle compagnie private: la Chrysler avrebbe cioè semplicemente riguadagnato i volumi di vendita alle flotte che avevano prima della bancarotta. L’acquisto da parte dei privati avrebbe invece subito un netto calo e comunque su base annua la casa automobilistica registrerebbe una perdita di 84 milioni di dollari.

A questo punto sembra lampante che aiutare le case automobilistiche a uscire dalla crisi è stato come gettare i soldi nel pozzo di San Patrizio. E pensare che anche i topi abbandonano la nave che affonda.

Fonte: La Voce del Ribelle

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