Si è svolto a Genova il Seminario “Le malattie del progresso” organizzato da MDF Genova. Di seguito la relazione del dr. Claudio Culotta, medico della ASL 3.

La definizione corrente di salute non è una definizione “in positivo”, non indica qualcosa che nella salute è presente: certi “funzionamenti”, capacità, opportunità effettive, che sono importanti per le persone.

Al contrario indica qualcosa che nella salute è assente: salute come assenza di malattia.

Di fronte alla malattia cosa si può fare?

In presenza della malattia si può, in certi casi, intervenire con la cura, la terapia. Prima della malattia c’è lo spazio della prevenzione.

In entrambi i casi l’intervento ha una componente tecnologica (il farmaco, la tecnologia  sanitaria, come ad esempio la TAC ecc.) e  una componente legata al “prendersi cura” della persona: technology e care.

Se l’aspetto tecnologico è dominante o esclusivo, c’è il rischio che la delega agli “esperti” e la sensazione di incompetenza nei confronti della propria salute siano eccessive. E’ il rischio della medicalizzazione.

Ivan Illich, nella sua opera “Nemesi medica” (1976) esordiva con queste parole “La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute”. Dopo alcuni decenni egli ha rivisto la sua posizione, ammettendo che la minaccia non consisteva tanto nella professione medica in quanto tale, ma nel modo in cui il “sistema salute” è organizzato nei paesi cosiddetti sviluppati

Un concetto introdotto da Illich è quello di monopolio radicale. Una “industria” o un sistema di industrie esercita un monopolio radicale quando diventa il mezzo dominante per soddisfare bisogni che in precedenza davano luogo a una risposta personale. In tali casi si verifica una concentrazione, un accentramento nei modi di produrre un bene o un servizio, che determina (e a sua volta è determinato da) una crescita dei consumi. Questo comporta ostacoli alla partecipazione, al decentramento, all’autonomia dei singoli e delle comunità locali.

I monopoli radicali esistono in molti contesti: la mobilità e i trasporti; la produzione e distribuzione di alimenti; la produzione di energia.

In tutti questi casi il rischio è quello della controproduttività, che è la situazione in cui i disagi, gli “effetti collaterali” di un’attività o di un sistema produttivo superano i benefici. Per esempio: i veicoli a motore (e l’industria dei  trasporti) creano distanze che soltanto essi possono ridurre. Però le distanze vengono aumentate per tutti e ridotte solo per pochi.

Anche nell’organizzazione dei sistemi sanitari possono essere create “distanze”, barriere, incompetenze rispetto a bisogni che in precedenza davano luogo a risposte personali, familiari o comunitarie, attraverso la medicina tradizionale o popolare. In contesti diversi dal nostro, come quelli di paesi economicamente meno sviluppati o di culture diverse dalla nostra, la maggior parte dei problemi di salute vengono tutt’oggi curati con la “medicina tradizionale”.

Esempi di medicalizzazione sono quelli che riguardano, o possono riguardare, l’invecchiamento, la cura del dolore, l’atteggiamento di fronte alla morte, alcuni aspetti dell’assistenza alla gravidanza e al parto (per esempio l’elevata frequenza dei tagli cesarei).

La causa di molti fenomeni “controproduttivi” è il paradigma socio-culturale dominante, che è basato sulla ricerca del benessere attraverso la crescita della produzione e del consumo di merci.

Il benessere misurato in termini di merci prodotte e consumate è in un certo senso coerente con un sistema sanitario eccessivamente orientato verso il consumo di tecnologie sanitarie, esami, farmaci, nel quale la salute -intesa solo come assenza di malattia – rischia anch’essa di essere mercificata.

Serve un’altra concezione della salute. Quella corrente è riduzionista e riduttiva. Riduce la persona a organismo (insieme di organi). Inoltre riduce la possibilità di spiegare e curare. Riduce la capacità di partecipare, anche insieme agli altri, alla tutela della propria salute e di quella della comunità. In sintesi riduce le nostre potenzialità e la nostra libertà.

La salute “vera” è in stretto rapporto con quello che la persona:

– può, è disposta, riesce effettivamente …

– a esprimere, realizzare di sé stessa …

– insieme agli altri.

Questa è la salute intesa come benessere biologico, psicologico e sociale, come qualità di vita.

In questa prospettiva è possibile un approccio di promozione della salute e del benessere (benvivere).

La promozione della salute va oltre la prevenzione. Non si tratta semplicemente di evitare, combattere la malattia. Ma anche di aumentare le nostre capacità di autorealizzazione, la nostra libertà e il nostro benessere (benvivere).

Questa prospettiva apre ulteriori scenari,  anche nel campo dei rapporti salute-ambiente. Il settore sanitario, insieme agli altri settori, agli enti locali, alla scuola, alle associazioni e alle comunità, diventa un portatore di interesse rispetto a temi come la vivibilità delle città, le città a misura di bambini (le città dei bambini), gli aspetti urbanistici, i consumi (consumismo, crescita/decrescita, rifiuti ecc), la programmazione della mobilità. La parola chiave in questo contesto diventa la partecipazione.

Per concludere, parliamo di stili di vita. In ambito sanitario quando si parla di  stili di vita ci si riferisce all’attività fisica, all’alimentazione, alle abitudini relative al fumo e all’alcol. In altri ambiti (tutela dell’ambiente, sostenibilità ambientale, modelli di sviluppo sostenibili) si parla di sobrietà, riduzione dell’impronta ecologica. Gli stili di vita sono importanti in tutti questi contesti e, in una certa misura, vi è convergenza tra i discorsi che vengono fatti in ambiti differenti. Per esempio il fatto di spostarsi a piedi o in bicicletta costituisce uno stile di vita positivo per la propria salute e per quella degli altri, per ridurre l’inquinamento ambientale, per contrastare certi monopoli radicali, per accrescere la propria libertà e quella altrui, per contribuire a “far pace col pianeta”. Lo stesso si può dire per un’alimentazione ricca di prodotti vegetali, possibilmente biologici e a chilometro zero, e povera di carne e grassi animali ecc.

Gli stili di vita rappresentano un primo livello di partecipazione individuale. Un secondo livello di partecipazione consiste nel superare la dimensione individuale e contribuire all’attivazione del contesto: attivarsi per contribuire a cambiare “il mondo intorno a sé”, nel proprio interesse, ma anche in quello dell’intera comunità, comprese le generazioni future.

Per il “miliardo d’oro” uno stile di vita ragionevole prevede una riduzione dei consumi. Nel suo libro tradotto in italiano con il titolo “Elogio della bicicletta” (1973) Ivan Illich affermava che “sia dal punto di vista biologico sia da quello sociale, le calorie sono benefiche solo fino a quando rimangono entro lo stretto margine che separa l’abbastanza dal troppo”.

Una riduzione di alcuni consumi potrebbe comportare una riduzione nella produzione di alcuni “beni”, misurata attraverso una riduzione del  PIL. Ma questo non significa che si verificherebbe una riduzione del benessere (benvivere).

In ogni caso, tutto questo ha a che vedere anche e direttamente con la salute, sia come assenza di malattia che come  salute “vera”.

 

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