Sono nata e cresciuta su una collina di circa 6 ettari. Fino ai 13 anni, quel luogo è stato il mio universo. Abbiamo intessuto un rapporto intimo ed emozionante. Nonostante fossi solo una bambina, mi sentivo incredibilmente felice e fortunata. A primavera, è successo un paio di volte che questa gioia traboccasse, correvo da mia madre piangendo di gioia. Non mi è mai più successo in seguito. Potevo osservare a lungo il microcosmo che c’era tra i fili d’erba, ammirare i ciclamini nel boschetto di acacie, un angolo scosceso e misterioso, creare corridoi e piazze segrete nel campo di grano, mangiare i fiori viola dolci, raccogliere mimose, cachi, ciliegie, mele cotogne, pere, menta, fichi, prugne, susine gialle. Ricordo che usai la croce d’oro della mia prima comunione per fare una tomba a un uccellino. Sotto ai cipressi e ad alcuni pini, crescevano funghi rari dal sapore di castagna. Una volta nevicò, anche. Non sapevo cosa fossero i giocattoli e cosa fosse la noia. C’erano poi, verso Nord-Est, degli Eucalipti molto alti. Piccola, poggiavo il piede sui rametti laterali e riuscivo ad arrampicarmi fino in cima. Di lassù, appollaiata scorgevo il monte Terminillo in lontananza. Le foglie delicatamente argentate frusciavano nel vento ed il tronco agile si dondolava molto. Era un luogo di meditazione e di silenzio dove restavo anche per più di un’ora.
 
Quella collina ed io siamo stati divisi, e sono passati parecchi anni. Resta però a tutt’oggi una specie di identità, come se fosse la mappa della mia stessa anima. Non ho mai più vissuto in campagna.
 
Avevo circa 26 anni credo, e non avevo ancora trovato la mia strada quando, una notte, feci un sogno. Mi trovavo sul punto della collina vicino agli Eucalipti, il luogo spiritualmente più significativo per me. Era mattina, credo. Dalla direzione degli Eucalipti, vidi dirigersi verso di me una grande orsa bianca con 2 piccoli in braccio.
Pensai subito che da quello che si dice, le mamme con i piccoli sono aggressive e pericolose perché devono proteggerli. Invece venne dritta verso di me. E mi mise i suoi piccoli in braccio, uno dopo l’altro. Mi trovai con un orso su un braccio e uno appeso all’altro.
Poi mi chiese di “salvarli dalla città”.
 
Non ricordo altro. Quella richiesta mi rimase a lungo oscura e misteriosa. Persino nel sogno ricordo che mi sentii al contempo profondamente onorata, affascinata, e al contempo imbarazzata. Non capivo proprio cosa volesse dire. Oggi capisco molto di più. Capisco quello che la civiltà urbana ha imposto alla natura e continuo a sentire una connessione assoluta con questa parte del mondo che vivo come una sorta di grazia e di ispirazione, e guida la mia vita ed il mio lavoro. Ma ammetto di tremare di commozione e di paura alla sola idea di avere un compito così immane, e che questa questione mi riguardi in modo intimo, personale.
 
Incontrare animali selvatici in sogno è sempre un onore immenso. Sento una gioia unica per il solo fatto di meritare la fiducia dei loro spiriti. Di fatto però non è un gioco né un safari. Difficile essere all’altezza!
 
Posso tentare di spiegare ciò che ho capito della richiesta dell’Orsa bianca, negli ultimi 7 anni. In primo luogo un bel giorno mi sono chiesta cosa volevo davvero fare nella vita. Allora stavo lavorando come responsabile di progetto e relazioni internazionali con il Comune di Roma, ma la mia creatività era molto frustrata. Piuttosto che fantasticare su una vita da artista, ho cercato di focalizzare quelle cose che già facevo, sempre, con gioia. Il mio fidanzato mi diceva sempre: se davvero vuoi fare una cosa con tutta tè stessa, la stai già facendo. Intendeva che ciò che ci anima è una sorta di urgenza, di necessità, non una vaga idea. E mi sono accorta che la cucina per me funzionava così. Cucinavo per decine di persone in modo appassionato e quasi compulsivo, senza veder passare il tempo. Questa attività mi faceva sentire il legame intergenerazionale (le nonne), ed il legame atavico con la natura (le stagioni, le forme, gli odori e i sapori sono un modo di vivere quel rapporto con la natura che molti hanno reciso).
 
Qualche anno dopo, decisi di avventurarmi su questa strada, volevo fondare una casa internazionale della cucina popolare, nientedimeno. Un tempio dove celebrare il senso alchemico dell’atto culinario e sentire la sua eco attraverso gli insegnamenti delle generazioni che ci hanno preceduto e dei loro diversi luoghi (i luoghi di origine dei migranti piuttosto che le campagne nostrane), unendo la sensualità con il misticismo. Come accade nel romanzo di Laura Esquivel Como el agua para el chocolate. Da lei ho coniato la frase “Che le emozioni si trasmettano negli alimenti per me è assolutamente evidente”. Decisi di studiare la questione più a fondo, di documentarmi. E così tentai un paio di concorsi di Dottorato. La via più logica sembrava quella dell’Antropologia. Fui invece accettata, con tanto di borsa di studio in… Urbanistica!
 
Nella prima fase della mia ricerca, passai giorni e settimane e mesi a stretto contatto con i contadini del Connettivo terra/Terra di Roma. Capii che i piaceri gastronomici autentici che avevo evocato e che volevo far rivivere, il vero cibo, era semplicemente una specie in via di estinzione. Capii quanto fosse drammatica la situazione economica ed ecologica: la magia del cibo esiste in quanto egli ci rimembra la nostra connessione con l’universo naturale. Ma è proprio questa connessione che è stata recisa, e coloro che la coltivavano in ogni parte del pianeta (contadini, pescatori, pastori, cuoche domestiche) sono stati decimati. Senza una fonte di saperi e di sapori a cui abbeverarsi, qualunque chef, per quanto geniale, diventa ripetitivo ed autoreferenziale. Senza volerlo, mi trasformai da gastronoma in attivista.
 
Proseguendo il lavoro, mi chinai sulla questione urbana. E fu allora che vidi il quadro completo della situazione che viviamo oggi: ciò che chiamiamo città sono agglomerati fuori scala che hanno perso qualunque senso di radicamento. Non è sempre stato così, è un fatto che risale alla scoperta dei combustibili fossili e del petrolio, ai primi del ‘900. Un fatto ridicolmente recente sulla scala evolutiva e che pure, ci ha cambiati in modo tanto radicale da poter essere paragonato soltanto alla scoperta dell’agricoltura, 12.000 anni fa. In queste macrocittà si concentra ormai più della metà della popolazione mondiale. I pochi contadini rimasti, anche volendo, hanno enormi difficoltà a comunicare con questa massa di “consumatori” passivi e vulnerabili. Più della metà dell’umanità è stata spinta dai recenti sviluppi economici verso vite che dipendono totalmente dal denaro. La specie umana, concentratasi in questi agglomerati, ha perduto il senso del proprio ruolo in relazione al non-umano.
 
Città come queste possono esistere solo grazie alla Grande Distribuzione Organizzata, che a sua volta esiste solo grazie all’Agricoltura Industriale. Ed ambedue queste ultime, governate da pochi strapotenti, sono essenzialmente alimentate dal petrolio. Il petrolio è il sangue della terra accumulatosi in riserve sotterranee in milioni di anni ed il sistema agro-insediativo di cui sopra lo sta bruciando in soli 150 anni. Con quale risultato? La nostra specie sta portando a termine la più vasta offensiva mai vista sulla faccia della terra contro tutte le altre specie viventi, negando in modo massiccio:
– il legame tra noi ed il tutto
– l’inconcepibile vastità dell’intelligenza naturale
– la nostra totale dipendenza da essa, che l’uso del petrolio non fa che esaltare, anche se ci stiamo illudendo di trascenderla.
 
a questa devastazione corrisponde un’altrettanto profonda devastazione psichica, ed una privazione dei mezzi più basilari che permettevano ai nostri corpi ed alle nostre anime di garantirsi un equilibrio esistenziale. Ognuno di noi è protagonista, responsabile. Il mondo naturale è in diritto di aspettarsi non solo che cessiamo di ferirlo, ma che iniziamo ad amarlo, a prendercene cura. Come fare allora se la maggior parte delle persone di buona volontà sono ormai prigioniere degli agglomerati urbani ed hanno scordato il nome delle stagioni, l’odore del vento, lo sguardo del cavallo, il linguaggio stesso? Ogni essere umano, per il solo fatto di essere vivo, è un figlio della terra madre ed un guardiano della sua salute. Quasi tutte le persone che conosco portano in sé l’embrione di questa consapevolezza. Portiamo nei nostri geni capacità latenti di agire come tali, come direttori di orchestra a nostro agio nel mondo naturale ed in armonia con le sue forme. Devono essere risvegliate. E con esse deve essere risvegliata la coscienza di avere un posto nel mondo, senza bisogno di psicologi froediani, lacaniani o comportamentali che siano.
 
L’Orsa bianca è dentro ognuno di noi. È quel luogo del profondo dove il confine tra il sé e l’universo si sfuma, lasciando abbeverare le nostre radici alla fonte più ampia dell’inconscio collettivo e della Grande Madre. Dobbiamo salvarci, ovunque viviamo, dalla deculturazione urbana e dalla desacralizzazione del cibo e della natura.

Fonte: Il lato Selvatico, bollettino di coordinamento del movimento Bioregionale

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