Sovrappopolazione, riscaldamento globale, perdita di biodiversità, scarsità di risorse: il mondo oggi si trova ad affrontare un mix esplosivo di problemi sociali ed ambientali in quella che è “un emergenza senza precedenti”. A portarci a questo punto sono stati il mito della crescita infinita e la fiducia nel libero mercato: per gestire la situazione occorre cambiare approccio. Parola di 18 tra i più importanti studiosi di ecologia viventi, i vincitori delle ultime edizioni del Blue Planet prize, una sorta di “Nobel” per lo studio delle problematiche ambientali creato nel 1992.

“Per evitare il collasso della nostra civiltà non abbiamo scelta se non agire subito e con decisione. O cambiamo strada e costruiamo un nuovo tipo di società mondiale o il cambiamento avverrà nonostante noi”. E’ questo l’avvertimento contenuto nel report (in allegato), presentato in occasione del quarantesimo anniversario della creazione delll’UNEP e in vista della prossima conferenza di Rio e che ha tra i firmatari Gro Harlem Brundtland (autore di quel Rapporto Brundtland dell”87 che fu base dell’originaria Conferenza di Rio del 1992,) Josè Goldemberg, ex-segretario brasiliano all’ambiente che presiedette quella stessa conferenza, e nomi importanti dell’ambientalismo contemporaneo come James Hansen e Amory Lovins.

Un lavoro che fa il punto sui principali problemi ambientali contemporanei e che cerca di dare delle indicazioni per affrontarli. Primo fra tutti il riscaldamento globale. Vi si ricorda che sia il consumo di energia procapite che la popolazione mondiale negli ultimi 150 sono aumentati di sette volte; che dipendiamo dalle fonti fossili ancora per circa l’80% del fabbisogno energetico e che, con gli impegni presi attualmente a livello internazionale, viaggiamo verso un aumento di almeno 3°C: una temperatura che il pianeta non ha mai visto negli ultimi 3 milioni di anni (l’homo sapiens esiste da un periodo 15 volte più corto) e l’aumento potrebbe superare i 5°C se gli impegni internzaionali non veniddero rispettati. Il global warming, quantifica il documento, già ora dovrebbe costarci il 5% del Pil mondiale ma se non fermato potrebbe un giorno fare danni maggiori rispetto all’output economico mondiale.

Per affrontare il problema, come detto, secondo gli autori serve un cambio di paradigma: “La società è affetta dalla credenza irrazionale che l’economia possa crescere all’infinito e che la crescita economica indiscriminata sia la cura per tutti i problemi del mondo, quando in realtà è la malattia che causa l’insostenibilità delle nostre pratiche”.

Critiche anche al sistema economico, che, si spiega, non riesce a internalizzare le esternalità negative nei meccanismi di mercato: caso emblematico le fonti fossili dal cui prezzo restano esclusi tutti i danni che producono alla collettività. Il mercato poi fallisce anche nell’allocare le risorse, per esempio alla ricerca: si spende di più per sviluppare tecnologie per approvvigionarsi di fonti fossili di quello che si spende in campagne per permettere il controllo delle nascite o per migliorare l’agricoltura.

Per rimediare, si consiglia, ci sono strumenti come tasse ambientali, standard ed altre regole. Andrebbero poi eliminati tutti quei sussidi dannosi per l’ambiente nei trasporti, in agricoltura e nel settore energetico: sono circa mille miliardi di dollari l’anno, di cui circa 409 vanno a promuovere l’uso delle fonti fossili.

Ma, spiegano i 18 ecologisti, , ma bisogna anche cambiare l’idea che abbiamo di economia. A partire dagli indicatori: il Pil è inadeguato, serve un indicatore che riesca a comprendere anche gli aspetti ambientali e sociali. E anche il sistemi decisionali vanno ripensati favorendo sempre più le iniziative dal basso: serve un sistema “decentralizzato in cui la gestione e la proprietà delle tecnologie stia nelle mani delle comunità stesse”. Le risposte a problemi come quello della povertà e del cambiamento climatico infatti, si spiega, non sono meramente tecnici, bensì sociali: i movimenti dal basso hanno mostrato soluzioni innovative contro corruzione, spreco di fondi, scelte tecnologiche inadeguate e scarsa trasparenza.

Fonte: qualenergia.it

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