Il preside della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna Andrea Segrè: serve prevenzione, le eccedenze devono essere evitate e non reindirizzate

Correva l’anno 2010 quando l’Università di Bologna, per la prima volta, lanciò un grido di allarme sullo spreco alimentare in Italia. Il fenomeno era conosciuto, e monitorato di anno in anno con ricerche di settore, ma fino ad allora nessun progetto sistematico di studio era stato lanciato sull’argomento. Le cifre – 44 milio­ni di tonnellate di cibo buttato nel 2009, pari alla quantità che avrebbe sfamato una seconda Italia – lasciarono il Paese a bocca aperta, e pure il Parlamento europeo, cui fu presentata – sempre su iniziativa dell’ateneo – una risoluzione affinché il tema entrasse tra le priorità comunitarie. Risultato ottenuto, tanto che nel 2014 si celebrerà l’anno europeo contro lo spreco alimentare. «Ma bisogna cambiare radicalmente mentalità», spiega Andrea Segrè, preside della Facoltà di Agraria a Bologna, fondatore del Last minute market e promotore delle iniziative.

Professore, cosa intende dire?

Temo che uno degli errori compiuti troppo spesso sia dalle istituzioni che dalle associazioni, quando si parla di spreco alimentare, sia quello di pensare ‘spreco = cibo’. È evidente che ci stiamo riferendo ad alimenti effettivamente buttati via e che invece, se recuperati, potrebbero sfamare persone. Eppure, quando facciamo solo questo ragionamento, ci fermiamo per così dire “a valle” dello spreco. Pensiamo che per risolvere il problema basti mettere l’eccedenza nel piatto di qualcuno, trasformare lo scarto in pasto.

E invece?

E invece dovremmo andare a monte del problema: non prenderne atto, ma cercare di prevenirlo. Mi spiego: lo spreco è innanzitutto uno spreco di risorse, che altrimenti sarebbero utilizzate (e utilizzabili) per altro. Non a caso una delle priorità nelle ricerche che compiamo in università è quantificare il valore delle eccedenze alimentari: lo facciamo per comprendere (e far comprendere) che se fossimo capaci di prevenire quello spreco, quelle risorse sarebbero “liberate”.

Faccia un esempio.

Quando abbiamo presentato il Libro nero sullo spreco alimentare, abbiamo quantificato quello spreco in euro, proprio come fa la ricerca compiuta dal Politecnico di Milano. Quando si parla di tonnellate di cibo, può essere difficile intercettare l’attenzione dell’opinione pubblica, delle aziende e delle istituzioni, ma quando si parla di miliardi di euro – specie in tempi di crisi – le cose cambiano. L’anno scorso e quest’anno, a Bologna, abbiamo provato a dare altre due idee forti di che “impronta” lasci lo spreco alimentare.

Quali?

Ci siamo occupati dello spreco idrico e delle spreco energetico connessi a quello alimentare. E abbiamo scoperto che, insieme agli alimenti che buttiamo via ogni anno, buttiamo anche i 12 miliardi di metri cubi d’acqua che abbiamo usato per produrli. È come se gettassimo via il lago di Bolsena o, per farci capire meglio, un decimo del mar Adriatico ogni anno. A livello energetico, poi, lo spreco impegna risorse esorbitanti: per produrre (e smaltire) alimenti in eccesso viene assorbito il 3% dei consumi energetici annuali. Se quell’energia fosse liberata basterebbe a coprire le esigenze di un milione e 650mila italiani per un anno.

Anche a casa sprechiamo ancora troppo…

Lì basterebbe qualche piccola accortezza. Come per esempio usare bene il frigorifero, sistemando il cibo negli scomparti in base alla data di scadenza e non sovraccaricandolo. Appendendo dei memo per ricordarci quando mangiare e cosa. Oppure, quando andiamo a fare la spesa, preparando una lista prima e attenendoci soltanto a quella. Ancora troppo spesso rimaniamo intrappolati nella logica delle offerte e delle scorte. Deleteria per tutti.

di Viviana Daloiso

Fonte:   Avvenire del 12/6/12

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