di Silvia Mantovani
Gruppo Territorio e Insediamenti Umani MDF

Fonte e lettura multimediale (consigliata!) su: http://paesaggididecrescita.wordpress.com

“Fra la cultura (o la civiltà) di una popolazione ed il paesaggio in cui essa vive esiste uno stretto rapporto biunivoco. Un paesaggio genera una cultura che, nel tempo, induce in esso modifiche sostanziali, al punto che il nuovo paesaggio influisce significativamente sulla cultura che l’ha modificato, determinandone una variazione” (Valerio Romani)

Questo, in altre parole, significa che il paesaggio del nostro futuro dipende in gran parte da noi, dalla cultura che oggi promuoviamo, dalla civiltà che scegliamo di costruire. Contemporaneamente, però, quello che saremo, dipenderà anche dai paesaggi che abiteremo.

Non siamo infatti solamente produttori di paesaggio, ma siamo anche il prodotto delle nostre scelte, delle conseguenze che da esse derivano, dei luoghi che esse generano.

Trascurare lo spazio, rinunciare a luoghi dove riconoscersi, ignorare le relazioni, sono infatti comportamenti che ci trasformano nel profondo, togliendoci salute e benessere, perché “un luogo trascurato fuori di noi è lo specchio di un luogo trascurato dentro di noi” (Nadia Breda).

Inoltre la maturata consapevolezza che il paesaggio è “un elemento chiave del benessere individuale e sociale”, sottolineata dalla Convenzione Europea del Paesaggio (CEP), non può più permetterci di ignorare che il nostro stile di vita occidentale è il principale imputato della mancanza di benessere e di qualità nei paesaggi che abitiamo, e dell’inarrestabile degrado ambientale, urbano, sociale che ne deriva.

Tutelare semplicemente i nostri paesaggi a nulla servirà senza un cambio del paradigma culturale che cambi noi prima di tutto.

Nuovi modelli salutistici ci spingono oggi sempre più verso il raggiungimento del benessere attraverso comportamenti virtuosi incentrati su digiuno e lentezza. Parallelamente dovremmo iniziare a proporre anche nuovi e più sani comportamenti paesistici: maggiormente sobri, rispettosi dei luoghi, attenti al benessere individuale e sociale. Comportamenti frutto di una “pedagogia verde” (Pierluigi Malavasi), che spinga a promuovere una crescita locale come mezzo di sopravvivenza allo sviluppo fine a se stesso, e una cittadinanza planetaria come impegno a condividere le risorse della terra.

“Oggi solo alcuni li scelgono ma a breve vi saremo tutti costretti, volenti o nolenti, dalla riduzione delle risorse e dalla insostenibilità energetica e ambientale del nostro modo cicalante. E’ comunque importante dare senso a questi comportamenti non come una penitenza di digiuno ma come un modello terapeutico, lenitivo di malesseri profondi e introduttivo ad un più facile e meno faticoso rapporto tra ciascun abitante della terra e il contesto della propria vita” (Paolo Castelnovi).

Modelli di comportamento che possono dare luogo a quelli che abbiamo chiamato paesaggi di decrescita, che alle 8R (come abbiamo iniziato a vedere qui: http://paesaggididecrescita.wordpress.com/2014/01/30/le-8-r-del-paesaggio-parte-prima/) si ispirano, declinandole in forme e attitudini proprie.

Continuando nella nostra ricerca questa volta proviamo a interpretare in termini di paesaggio le successive tre “R”: Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre.

4. Ridistribuire. Paesaggio bene comune

(Garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali e ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e condizioni di vita dignitose per tutti) Serge Latouche.

La ricchezza del nostro paese è il paesaggio, assieme al suo patrimonio storico e artistico. La Costituzione (art.9) tutela questo tesoro, anche se talvolta appare difficile da credere.

La CEP ha sottolineato inoltre che tracce di questa ricchezza sono riscontrabili ovunque: “nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana”, spingendo gli Stati membri ad attivarsi per garantire a tutti i cittadini l’accesso alla bellezza.

Una bellezza che, declinata in termini paesaggistici, moltiplica i suoi valori diventando: salute (fisica e psicologica), sicurezza (assetto idrogeologico), benessere (anche economico), futuro (sostenibilità).

Valori che attraverso il paesaggio possono essere ridistribuiti sul territorio in maniera capillare, quasi omeopatica (nel senso di stimolo delle capacità di reazione), attraverso gli spazi aperti.

La cementificazione del territorio, e il consumo selvaggio di suolo sono infatti espressione di una valorizzazione economica ingiustificata dei diritti edificatori e dei patrimoni privati che ha avuto come conseguenza il degrado del paesaggio e dei beni comuni.

La tutela e la promozione degli spazi aperti, al contrario, rappresentano invece una efficace strategia per la riqualificazione urbana e la riduzione del consumo di suolo, attraverso la ridistribuzione del bene comune paesaggio (biodiversità, bellezza, benessere, ma anche coesione sociale e integrazione).

Esemplare in questo senso (ma sono tante ormai le esperienze in giro per il mondo) è la Open Space Strategy messa a punto a partire dal 2003 dalla Municipalità di Londra per dare risposta ad una domanda dal basso di ridistribuzione del “verde di prossimità” all’interno dei vari quartieri urbani (borough), nella convinzione dell’importanza fondamentale di riconnettere la pianificazione alle esigenze locali.

La progettazione e l’organizzazione del verde urbano e degli spazi liberi residui divengono così il fulcro attorno al quale ripensare la conformazione urbana, il sistema dei servizi, la mobilità, il progetto delle residenze, tentando l’integrazione di tutti questi aspetti nella vita quotidiana a livello di quartiere.

Invece di investire sul pieno, come troppo spesso ha fatto la nostra pianificazione urbana, si lascia spazio al vuoto, con l’obiettivo di creare una rete di spazi aperti di alta qualità capaci di garantire quartieri più sani, sostenibili, socialmente coesi e attraenti per tutti, cittadini e visitatori.

L’amministrazione si impegna così non solo a preservare gli spazi aperti esistenti da usi inadeguati, ma a facilitare la creazione di ulteriori spazi aperti, garantendone la qualità e l’accessibilità, anche attraverso convenzioni con privati, partenariati e volontariato locale.

Per facilitare il compito delle autorità locali, nel 2008 è stata redatta anche una guida dal titolo “The City of London. Open Space Strategy” che definisce i criteri per la localizzazione e caratterizzazione degli elementi del sistema degli spazi aperti alla scala locale, implementandone e diffondendone quantità e qualità (http://www.cityoflondon.gov.uk/things-to-do/green-spaces/city-gardens/about-us/Documents/open-space-strategy.pdf).

5.Rilocalizzare. Paesaggi agricoli urbani

(Consumare essenzialmente prodotti locali, prodotti da aziende sostenute dall’economia locale. Di conseguenza, ogni decisione di natura economica va presa su scala locale, per bisogni locali) Serge Latouche.

Il 2014 è stato dichiarato dalla FAO Anno Internazionale della Agricoltura Familiare (International Year of Family Farming -IYFF) con lo scopo di sottolineare il ruolo fondamentale dell’agricoltura locale su piccola scala nello sradicare fame e povertà, nel garantire sicurezza alimentare e nutrizione, nel migliorare i mezzi di sussistenza, la gestione delle risorse naturali, la tutela dell’ambiente, e nel realizzare uno sviluppo sostenibile, in particolare nelle zone rurali.

L’obiettivo centrale è quello di riposizionare l’agricoltura familiare al centro delle politiche agricole, ambientali e sociali nazionali, studiandone carenze e opportunità, per aumentare la conoscenza delle problematiche affrontate dai piccoli agricoltori e contribuire così a individuare modi efficaci per sostenerli e limitarne l’estrema vulnerabilità.

Sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, infatti, l’agricoltura familiare rappresenta una grande opportunità per incrementare le economie locali, dando contemporaneamente risposta alla doppia emergenza che il mondo si trova oggi ad affrontare: migliorare la sicurezza alimentare e preservare le risorse naturali e la biodiversità.

Anche a livello globale si inizia quindi a pensare che l’economia locale possa davvero essere una carta vincente non solo in termini monetari, ma soprattutto di sicurezza, di salute, di tradizioni, di comunità, di solidarietà, di felicità, di futuro.

Sempre più numerosi sono infatti in tutto il mondo i tentativi di sviluppare forme di economie alimentari locali, dove i consumatori abbiano controllo sulla qualità del cibo che mangiano, sul rispetto dell’ambiente, sulla salvaguardia del paesaggio.

E’ il caso ad esempio dell’agricivismo di Richard Ingersoll che promuove “l’utilizzo delle attività agricole in zone urbane per migliorare la vita civica e la qualità ambientale/paesaggistica” e la produzione di prodotti agricoli per il consumo locale attraverso la partecipazione attiva dei cittadini, buona pratica fatta propria in Italia dalla Regione Emilia Romagna.

Interessante anche il recente progetto dell’architetto canadese Nathalie Grenon della Sartogo Associati che prevede il riutilizzo della Tangenziale est di Roma, in dismissione, per trasformarla in una striscia verde lunga 1700 metri, per una superficie totale di 40mila mq.

“Agricoltura urbana in Tangenziale – Coltiviamo la città”il nome del progetto, a sottolineare la vocazione agricola del parco, che prevede orti urbani, un vigneto, un meleto, un “giardino dei nonni e dei nipoti”, e persino un mercato rionale a km 0 con copertura realizzata in fotovoltaico per la vendita dei prodotti coltivati sul posto.

E il tutto allo stesso costo necessario per il previsto abbattimento della ormai obsoleta infrastruttura e per la creazione di parcheggi per residenti.

Da segnalare infine la realtà crescente dei GAT (Gruppi di Acquisto Terreni), evoluzione dell’esperienza dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), ovvero gruppi di persone che decidono di mettersi insieme, con un numero di quote più o meno paritario per acquistare un appezzamento di terra e poi lavorarci, coltivarlo, farne un’impresa, oppure semplicemente per gestire direttamente la produzione di quanto arriva sulla propria tavola.

E’ il caso della bolognese Arvaia, cooperativa di cittadini, coltivatori, biologici, nata nel 2013 con l’obbiettivo di coltivare la terra, attraverso una gestione collettiva dei soci, dalla semina al raccolto, destinato prevalentemente alla comunità dei soci stessi. Un interessante tentativo in fase di espansione di ridistribuzione e di gestione collettiva di un bene comune a fini di sussistenza locale.

6. Ridurre. Paesaggi virtuosi

(Ridurre sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta ecologica pari ad un pianeta) Serge Latouche.

Secondo i dati ISPRA il consumo di suolo nel nostro paese sarebbe pari a circa 8 mq al secondo (Report WWF RiutilizziAmo l’Italia), in un progressivo incremento che dal 1956 ad oggi non ha conosciuto battute di arresto.

L’Europa non è messa meglio con un bilancio di oltre 1 000 km² di nuovi terreni edificati all’anno.

Per questo la Comunità Europea nel 2011 ha definito nella “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse” [COM(2011) 571], nel paragrafo dedicato a “Terra e suoli”, un percorso lineare che ci porti, entro il 2050, a non edificare più su nuove aree. Per questo ha chiesto l’impegno di tutti gli stati membri a limitare il più possibile l’occupazione e l’impermeabilizzazione dei terreni e per recuperare i suoli dei siti contaminati.

Abbiamo già avuto modo di segnalare l’impegno in questo senso dell’Associazione dei Comuni Virtuosi, che hanno fatto del principio ispiratore “no consumo di suolo” (opzione cementificazione zero, recupero e riqualificazione aree dismesse) il proprio punto di impegno verso i cittadini, adottando pratiche e incentivando azioni tutte volte a ridurre: l’impronta ecologica, l’inquinamento, lo spreco energetico, i rifiuti, ecc….

Esistono però altri interessanti modi di contribuire alla riduzione del consumo di territorio. Uno di questi è il progetto TEMPORIUSO, promosso dall’omonima associazione culturale di attivisti e ricercatori milanesi, che si propone di realizzare una mappatura partecipata del patrimonio edilizio esistente e degli spazi aperti vuoti, in abbandono o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata. L’obiettivo è quello di “riattivarli con progetti legati al mondo della cultura ed associazionismo, allo start-up dell’artigianato e piccola impresa, dell’accoglienza temporanea per studenti e turismo low cost”, attraverso bandi di assegnazione e concorsi d’idee per il riuso temporaneo.

Ma il suolo non è la sola risorsa ad essere consumata in eccesso. L’acqua non è da meno, tanto da essersi guadagnata l’appellativo di “oro blu”. L’ONU ha addirittura previsto che l’accesso alle risorse idriche e il loro controllo potranno essere una tra le cause delle guerre del 21° secolo.

Non solo infatti facciamo di questa risorsa un uso sconsiderato, ma in un orizzonte di progressiva emergenza, invece di trattenerla la allontaniamo il più rapidamente possibile verso i fiumi e il mare. Le superfici impermeabili (hardscape) impediscono infatti alla pioggia di infiltrarsi nel terreno, e il deflusso delle acque piovane, sempre più veloce, porta a fenomeni di erosione e di inquinamento delle falde e dei corpi idrici, nei quali defluiscono, senza nessuna filtrazione, oli, metalli e altri contaminanti raccolti per strada.

Nell’attesa di ridurre drasticamente l’impermeabilizzazione dei suoli attraverso piani avveniristici e progetti futuribili che ci portino fuori dall’emergenza, molte sono le strategie locali che possono contribuire a ridurre gli sprechi, favorire nuovi tipi di gestione dell’acqua, proporre nuovi paesaggi: dall’uso di pavimentazioni permeabili, all’utilizzo di impianti di fitodepurazione, alla creazione di piccoli bacini per il recupero delle acque piovane, ecc…

Un interessante esempio di queste possibilità, diffuso a partire dagli anni Novanta negli Stati Uniti, è rappresentato dai rain gardens, piccoli giardini (o aree urbane) appositamente progettati e piantumati per raccogliere e assorbire l’acqua piovana (proveniente da tetti, strade, aree a parcheggio, o zone pavimentate in genere), e allo stesso tempo per favorire la qualità e il rinnovo delle acque di falda.

Questi impianti, infatti, apparentemente limitati e banali, oltre a creare nuovi interessanti paesaggi urbani, contribuiscono a ridurre l’inquinamento dei corsi d’acqua, l’erosione superficiale e il rischio di allagamenti, concorrendo in maniera incisiva al miglioramento ambientale ed estetico e alla regimazione idraulica a scala locale.

Manuali di istruzioni diffusi su internet, poi, rendono ampiamente accessibile il semplice know-how per la costruzione dei rain gardens, incoraggiando tutti (amministratori e privati cittadini) a collaborare ad un nuovo modello locale e sostenibile di gestione delle acque meteoriche.

Sempre più evidente appare dunque che se i paesaggi di domani saranno belli, sani, inclusivi, non dipenderà tanto o solo dalla nostra capacità di tutelarli e di progettarli, quanto dalle volontà di cambiare rotta, di immaginare nuove e diverse forme di abitare il mondo, abbandonando la “miseria dello sviluppo” (Piero Bevilacqua).

Nuovi e diversi paesaggi nasceranno allora per ospitare, forse, uomini nuovi.

CONTINUA…..

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