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La disoccupazione è senza dubbio uno dei problemi più incalzanti cui è sottoposto l’intero mondo occidentale e, in particolare, il continente europeo. Nella media dei paesi dell’OCSE il tasso di disoccupazione ha raggiunto, alla fine del 2012, l’8,2% e all’interno della Comunità Europea rimane stabile al 11,3%. Il dato più preoccupante è però quello della durata della disoccupazione: circa due terzi delle persone alla ricerca di lavoro rimangono disoccupate per oltre un anno.

La disoccupazione è sempre stata soggetta a variazioni cicliche, ma la sua ciclicità oggi in Italia, come nella maggiorparte dei Paesi europei, si presenta sempre più asimmetrica. Quando la produzione diminuisce o ristagna, l’occupazione cala; quando l’economia è in fase espansiva, l’occupazione non cresce o cresce debolmente.

Si è così determinato un tasso di disoccupazione di lungo periodo.

La disoccupazione in Europa oggi è condizionata da alcuni elementi peculiari, che costituiscono il punto di avvio per l’analisi del problema e per l’impostazione delle direttrici di politica economica. In particolare, è importante evidenziare tre aspetti: la globalizzazione dei mercati, i processi di integrazione economica europea, lo sviluppo di un’economia basata in modo crescente sull’informazione e sui servizi e sempre meno sulle attività industriali.

Siamo in una fase di cambiamento tecnologico radicale, in cui lo sviluppo dell’economia è basato in modo crescente sull’informazione e sui servizi e sempre meno su attività industriali. Le trasformazioni che hanno accompagnato l’attuale fase di sviluppo economico e che hanno causato profondi mutamenti nei processi produttivi hanno generato disoccupazione anche in presenza di crescita economica.

L’attuale fase di progresso tecnico è caratterizzata dal ruolo fondamentale della tecnologia. Si è sviluppato un nuovo regime tecnologico, alternativo a quello della produzione di massa di tipo fordista che ha comportato importanti cambiamenti nella composizione della domanda di lavoro. Si è ridotta la richiesta non solo di lavoratori non qualificati, ma anche di lavoratori che possiedono competenze non adeguate alla nuova organizzazione produttiva. Contemporaneamente è diminuita la possibilità di sostituire lavoratori con specializzazioni differenti: la carenza di manodopera in possesso di competenze specifiche in aree ad alto tasso di disoccupazione è un fenomeno sempre più diffuso. La disoccupazione appare dunque come il risultato delle trasformazioni che avvengono nei processi produttivi in seguito al nuovo regime tecnologico.

La sfida sollevata dal nuovo regime tecnologico, così come dalle altre situazioni congiunturali della nostra epoca, è quella di generare un modello di sviluppo in grado di metabolizzare i cambiamenti in atto e creare nuovi posti di lavoro, cercando inoltre di migliorare la condizione delle classi più deboli della società.

Tra le proposte di politica economica volte a contenere la disoccupazione, alcune si basano sull’idea che questa possa essere ridotta stimolando la crescita economica, mentre altre si fondano sulla convinzione che lo sviluppo dell’economia non basti e che si debbano operare numerose trasformazioni strutturali nel sistema.

Ciò che andrò ad affrontare nel corso del mio intervento si pone in questa seconda prospettiva e si rifà a quel filone di politiche di redistribuzione del lavoro, e in particolar modo alla riduzione degli orari di lavoro.

Dopo un breve cenno alla letteratura concernente le proposte sulla riduzione dell’orario di lavoro, con i relativi vantaggi e svantaggi che esso comporterebbe, focalizzerò l’attenzione sul particolare giovamento del quale beneficerebbero principalmente le imprese: l’incremento della produttività procapite (facendo riferimento ad uno studio econometrico basato su dati ISTAT).

Se vi sarà tempo si potrà approfondire il caso studio “Volkswagen e la settimana lavorativa di 28,8 ore”.

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