“Non c’è nulla da pagare”: questa frase da un po’ di tempo appare piuttosto spesso sulle mie bollette elettriche. Da quando, per l’esattezza, è entrato in funzione nella mia casa un impianto fotovoltaico. Quanto alle bollette dell’acqua, esse semplicemente non esistono perché le mie risorse idriche provengono, nei mesi di pioggia, dall’acqua piovana raccolta in un’ampia cisterna sotterranea e, nei mesi estivi, da una falda idrica, tramite un pozzo profondo 60 metri provvisto di una pompa a immersione.

Una seconda pompa provvede poi a portare l’acqua dalla cisterna alla casa e all’orto il quale, insieme ad una dozzina di alberi da frutto, infine fornisce una non trascurabile parte del mio cibo. Energia, acqua, cibo: le tre risorse fondamentali, tutte ricavate in gran parte ricorrendo alle risorse del luogo e a costi estremamente contenuti.

L’idea originale era di parlare qui dei benefici che queste scelte di autoproduzione e di ricorso alle risorse rinnovabili hanno portato nella mia vita, primo fra tutti quello di aver potuto ridurre la mia dipendenza dal denaro e dunque di poter lavorare oggi solo sei mesi all’anno. Tuttavia nessun luogo è un’isola, nessun luogo può sperare di rimanere immune da quanto sta accadendo nel mondo. E meno che mai ovviamente il mio.

Parliamo di acqua. Per gran parte dell’anno la pompa del pozzo dorme inutilizzata nelle profondità della terra perché l’acqua piovana è sufficiente a tutte le mie esigenze. A volte perfino ridondante. A un certo momento dell’anno però le piogge cessano, la cisterna poco a poco si svuota e per riempirla nuovamente devo cominciare a usare l’acqua del pozzo. A un certo momento.

Quando? Ecco il punto: i primi anni (dal 2003 in poi) esso era più o meno situato nella prima decade di luglio, a volte anche oltre. Poi, ogni anno, cominciò ad anticipare. Ogni anno mi tocca risvegliare la pompa del pozzo sempre un po’ prima. Quest’anno è accaduto il 15 giugno. Siamo ormai a settembre e la pompa non ha cessato di funzionare. Perché sono ormai oltre tre mesi che non piove.

In Lombardia gli agricoltori parlano di perdita del 40% del raccolto, nei comuni dei Castelli Romani l’acqua è razionata e infuriano le polemiche sulle responsabilità degli amministratori che in passato hanno consentito la costruzione di troppi edifici, cosa in cui si crede di vedere la causa dell’attuale scarsità idrica. Intanto il mese di agosto è stato caratterizzato da ondate di caldo inaudite che hanno aggravato ulteriormente la situazione. La falda sotto casa mia continua a darmi acqua, cosa di cui la ringrazio, ma sempre più spesso mi domando cosa farò il giorno in cui anch’essa si esaurirà prima del ritorno autunnale delle piogge.

Alla domanda non ho ancora trovato risposta, forse semplicemente perché non c’è. Chiederò anch’io l’allaccio all’acquedotto? Non ci penso neppure, perché so bene che è una falsa soluzione: nessun acquedotto è infinito. La leggenda dell’acqua corrente che scorre senza fine in tutte le case si sta rivelando ormai come la leggenda del petrolio: prossima alla crisi globale. Nelle polemiche o nella rassegnazione fatalista nessuno pronuncia le due parole che invece tutti dovrebbero pronunciare. No, non ‘spending review’ (che non ho la più pallida idea di cosa significhi né m’importa scoprirlo) bensì ‘riscaldamento globale’.

Nel mondo sta accadendo qualcosa, ed è quello. Ho visto due fotografie dei ghiacci artici, una del 1979 e una del 2003: ne manca un terzo. Intere popolazioni stanno per lasciare le loro terre perché divenute inabitabili, o perché inaridite o perché prossime ad essere sommerse dall’innalzamento degli oceani (ecco dove sono finiti i ghiacci scomparsi).

Coloro per i quali il rapporto con la realtà consiste nel pagamento di una bolletta che garantisce il flusso ‘infinito’ di una risorsa possono pur continuare a credere che tutto sia come prima, possono continuare a ingozzarsi di carne e formaggi (magari locali e biologici, in trine e merletti insomma perché la leggenda dice che basta questo affinché siano ‘sostenibili’), possono tener alto il termosifone anche nelle stanze in cui non c’è nessuno, anche per tutta la notte, comprare l’ennesimo SUV e usarlo tutti i giorni per andare in ufficio certi che dalle innumerevoli pompe di infiniti distributori infinitamente continuerà a fuoriuscire il vivificante flusso di benzina (ma che seccatura che il prezzo continui ad aumentare, vero? Il governo dovrebbe far qualcosa).

Chi invece ha stabilito un rapporto diretto con le risorse su cui poggia la sua esistenza, il cambiamento nel mondo lo vede. E non in luoghi remoti come il Kiribati (che nome ridicolo, vero? Sembra uscito da un film di Woody Allen. Come si fa a credere che esista davvero?) quel piccolo e sconosciuto staterello dell’Oceania prossimo a scomparire fra le onde. Non lì ma qui, in casa propria. Il cambiamento è quell’interruttore che devo azionare ogni anno sempre un po’ prima, sapendo che verrà il giorno in cui lo azionerò invano.

Sono le piante vissute senza problemi fino a qualche anno fa ma che oggi hanno bisogno di costanti irrigazioni; sono quelle che nonostante ciò non ce la fanno e, un anno dopo l’altro, scompaiono. Non si tratta più di profezie sui decenni a venire come ai tempi degli studi del MIT per il Club di Roma ma di una realtà presente e in rapida evoluzione che il metodo della bolletta da pagare in cambio di un flusso di ‘benessere’ infinito maschera sempre più a fatica.

Secondo l’IPCC e numerosi altri ricercatori siamo ormai vicini al punto di non ritorno, quello in cui si innescherà un circolo vizioso (o anello di retroazione positiva per chi ama il linguaggio sofisticato) che renderà il processo di riscaldamento globale inarrestabile. Sempre più spesso sento una persona come Maurizio Pallante ripetere durante le sue conferenze che stiamo andando a capofitto verso una situazione in cui cesseranno di esistere le condizioni che hanno consentito l’esistenza dell’uomo sulla Terra. Sempre più spesso lo ripeto anch’io, ed è ogni volta un’esperienza sconcertante constatare la calma piatta che accoglie questa affermazione, il ritrovarsi al centro di un coro di facce tranquille, come di chi si è appena sentito raccontare un’amena favoletta sull’ennesima centuria di Nostradamus.

Di recente ho imparato che per qualcuno un pezzo di parmigiano è più importante del disastro planetario in cui ormai siamo immersi, che porre tale disastro in testa alle priorità è percepito come un atteggiamento lontano dalla realtà e velleitariamente messianico (‘salvare il mondo’).

Intanto io aziono quell’interruttore ogni anno sempre un po’ prima, pensando all’analogia con l’overshoot day , che ogni anno cade sempre in anticipo rispetto al precedente. I giornali continuano a parlare di spending review, ripresa della crescita e incentivi al consumo, nell’università in cui lavoro continuo ad assistere impotente al connubio insano fra climatizzatori a pieno regime e porte aperte, continuo a vedere sedicenti ambientalisti e decrescenti vari (felici o meno che siano) ingozzarsi di carne e pesce, continuo a udire qualche esponente di Greenpeace attribuire la distruzione delle foreste primarie ai rotoli di carta assorbente da cucina.

Sulle mie bollette continua ad apparire spesso la frase “non c’è nulla da pagare” ma quell’interruttore azionato ogni anno sempre prima mi dice che presto un conto molto più grosso dovrà essere pagato. E il denaro non servirà.

di Filippo Schillaci

Fonte: Il Cambiamento

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