Non avrà nessuna conseguenza, almeno per ora, il voto dei referendum dello scorso giugno sull’acqua. I due quesiti che hanno ricevuto prima il numero più alto di firme di accompagnamento, e poi il consenso quasi unanime degli elettori, dopo essere passati nelle intercettazioni telefoniche tra Valter Lavitola e il tecnico candidato a dirigere la neonata Agenzia delle Acque, Roberto Guercio, sono stati mandati in soffitta con discrezione dalla Commissione per le risorse idriche. L’eliminazione del profitto sulla gestione del sistema idrico integrato – pari al 7% del capitale investito – secondo il presidente del Conviri Roberto Passino è in sostanza qualcosa di virtuale.
 
In una lettera inviata al Cncu – la consulta delle associazioni dei consumatori – la commissione delle risorse idriche spiega che quella percentuale abrogata dal secondo quesito referendario in realtà contiene “voci di costo, quale gli oneri finanziari e gli interessi passivi”. In sostanza quello che per la legge corrisponde alla “remunerazione del capitale”, ovvero al profitto, per il Conviri è una voce di bilancio che non può essere completamente eliminata. Attuare il referendum, prosegue Passino, avrebbe conseguenze “sulla copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio”. In altre parole il voto espresso lo scorso giugno potrebbe mettere a rischio gli equilibri di bilancio dei gestori dell’acqua. Una bilancia che ora pende dalla parte delle grandi società dei servizi pubblici locali, in grado fino ad oggi di macinare dividendi milionari.
 
Il 20 luglio scorso l’esito dei due referendum sull’acqua è divenuto legge e immediatamente applicabile, dopo la firma del decreto del presidente Napolitano. Le società che gestiscono gli acquedotti hanno continuato ad emetter le bollette includendo anche quella parte di tariffa abrogata dal secondo referendum. Le autorità d’ambito – la parte pubblica del sistema idrico, che ha competenza nel decidere le tariffe – hanno rinviato la questione alla Commissione nazionale presieduta da Passino, che fino all’avvio dell’Agenzia delle Acque è l’organo nazionale competente in materia di tariffe idriche.
 
L’interpretazione del Conviri era già stata anticipata lo scorso luglio dal governatore della regione Puglia Nichi Vendola. Ai comitati per l’acqua pubblica che chiedevano l’immediata riduzione delle bollette dell’Acquedotto pugliese il leader di Sel aveva risposto spiegando che quel 7% in realtà era un costo e che quindi non poteva abrogalo, come richiesto dal voto del referendum. Una posizione che aveva scatenato la dura reazione dell’intero movimento per l’acqua, che proprio in questi giorni sta studiando le risposte alla mancata attuazione dei referendum.
 
La quota del 7% nelle bollette pesa in realtà molto di più rispetto alla cifra prevista dalla legge. Mediamente, secondo i primi calcoli effettuati dai comitati per l’acqua, la riduzione delle bollette potrebbe raggiungere anche il venti per cento della tariffa finale. Il riconoscimento della remunerazione del capitale ha portato fino ad oggi ad introiti considerevoli, spesso basati su complessi sistemi contabili. Il principale gestore degli acquedotti italiani per numero di abitanti serviti, la romana Acea, ha accumulato solo nella provincia di Roma una quota che sfiora i 500 milioni di euro, dal primo gennaio 2003 fino ad oggi, solo considerando l’applicazione della percentuale abrogata dal referendum. Una cifra che potrebbe coprire agevolmente gli investimenti richiesti nei prossimi anni per l’intera provincia di Roma.
 

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