Intervista con Vandana Shiva: “Dalla Grecia attraverso l’Italia fino al Sud della Francia, la marcia internazionale degli agricoltori che difendono la biodiversità sensibilizzerà l’opinione pubblica sull’importanza di salvaguardare le specie locali”

Salvare i semi tradizionali e le specie agricole locali, preservando così economie e biodiversità. È lo scopo della Carovana internazionale dei guardiani dei semi. Che , partita dalla Grecia, sta attraversando l’Italia prima di raggiungere il sud della Francia. Agricoltori greci, bulgari, americani, italiani, francesi, tedeschi e indiani si sono incontrati, solo in Italia, con ben 26 associazioni che chiedono una cosa precisa: continuare a conservare e scambiare le sementi dei propri campi in maniera autonoma e libera dai brevetti. Un’azione antica come il mondo che, presto, a causa di un regolamento europeo potrebbe non essere più possibile. Anzi, legale. Ce lo racconta a Firenze dal cuore della manifestazione itinerante la presidente dell’associazione Navdanya: Vandana Shiva, una delle più autorevoli voci mondiali in difesa della natura e della sua biodiversità, ecologista e attivista, scienziata e filosofa. Ma anche seguitissima bloggerde LaStampa.

 

Firenze e Genova sono le due tappe italiane della “Carovana internazionale dei guardiani dei semi”. Di cosa si tratta?

«Si tratta di una manifestazione itinerante partita in Grecia il 27 aprile, che sta passando per l’Italia e si concluderà nel sud della Francia il primo maggio. Questo perché le nazioni mediterranee sono le più ricche di diversità, sia a livello di agricoltura che di cibo. Ma anche perché questa ricchezza è minacciata, perché si sta provando a renderla illegale attraverso un nuovo Regolamento sulle sementi tradizionali che sta elaborando la Commissione europea, e che in sostanza vieterebbe la commercializzazione dei semi di piante agricole tradizionali».

 

Perché la Commissione europea vorrebbe una cosa del genere?

«La mia personale visione di questa cosa è che si vuole fare in Europa quanto già fatto negli Stati Uniti d’America, dove i piccoli agricoltori, da sempre molto dipendenti dalle corporation, sono stati distrutti. Un giorno chiesi a uno di loro perché coltivava soia geneticamente modificata e mi ha risposto: “Le compagnie (del biotech, ndr) ci tengono un cappio al collo. Noi facciamo quello che ci dicono di fare”. Oggi il risultato è che negli Usa il 95% del mais e della soia coltivati sono geneticamente modificati. In Europa, invece, a causa dell’opposizione di diversi Movimenti popolari, di alcuni governi e di gran parte dell’opinione pubblica, la spinta agli organismi geneticamente modificati (Ogm) non è riuscita ad allargarsi alle sementi. E gli Ogm non si sono impadroniti dell’agricoltura europea come hanno fatto con quella statunitense».

 

Non pensa che gli Ogm possano effettivamente migliorare le rese delle colture?

«Spesso si pensa che ciò che riguarda gli Ogm sia una questione di progresso tecnologico, senza il quale non si potrebbe sfamare il pianeta. Ma non è così, perché con essi non si migliora l’agricoltura. L’ingegneria genetica non aumenta le rese, non è in grado di controllare i parassiti né di ridurre l’uso di erbicidi; ha solo fallito in ogni senso».

 

Eppure i sostenitori degli Ogm affermano che questi possano essere utili non solo per produrre maggiori quantità di cibo, ma anche per potere coltivare in zone in cui ora non è possibile farlo, come le aree desertiche…

«Lo ripetono dal 1985, che gli Ogm sarebbero utili nei deserti. La maggior parte di essi sono però degli ibridi, il che significa che hanno bisogno di moltissima acqua. In India il cotone bt, che è stato promosso tanto da portare in alcune zone a rappresentare il 95% delle coltivazioni, richiede abbondanti irrigazioni, che però spesso gli agricoltori non hanno modo di fornire. Non è vero che sarebbe possibile coltivare laddove non c’è abbastanza acqua. Ma ancora più importante è appunto che le rese non aumentano. Ho avuto il privilegio di partecipare ad una riunione di una di queste compagnie, nel 1987, e vi si diceva che per aumentare i loro profitti si sarebbero dovuti dedicare all’ingegneria genetica. Il punto, per loro, era ed è quello del controllo dei semi. Non avendolo potuto fare spingendo gli Ogm in Europa, stanno provando a farlo attraverso la legislazione Ue. Che, di fatto, renderebbe il settore agricolo dipendente dalle sementi industriali. Una cosa assurda in Europa: l’agricoltura in Toscana è diversa da quella in Sicilia, così come quella di un’isola greca è diversa da quella in un’altra isola dello stesso Paese. Ridurre questa diversità sottomettendola ad un’unica legge approvata da Bruxelles è un modo di governare autoritario e centralizzatore. Il tutto in un momento in cui, invece, la democrazia richiede una decentralizzazione, e i cambiamenti climatici impongono per essere fronteggiati una preservazione della biodiversità. Alle elezioni europee di maggio, le scelte che si faranno potranno avere importanti effetti a lungo termine».

 

Che cosa significa di preciso volere mantenere i semi “liberi”?

«Le grandi multinazionali stanno cercando di controllare e possedere tutti i semi, e di opporsi alle leggi che preservano l’esistenza delle sementi locali. Ma non solo, vogliono anche fare in modo di averne la proprietà intellettuale. Un processo iniziato attraverso l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che oggi si vuole invece avvalere dei Negoziati sul libero scambio tra Usa e Ue. I contadini dovrebbero essere liberi di conservare e scambiare i loro semi, anzi secondo me sarebbe un loro dovere farlo. Allo stesso modo, le società dovrebbero essere libere di sviluppare una loro cultura alimentare basata sulla diversità, non forzate a mangiare Ogm e cibo spazzatura».

 

Sul blog “Madre terra” che tiene su LaStampa.it, in effetti, ha scritto che in India “le sementi, che un tempo erano una risorsa comune degli agricoltori, sono diventate una proprietà intellettuale di corporation come Monsanto”. Ma se la ricerca sugli Ogm fosse affidata ai governi, invece che alle multinazionali, non pensa che potrebbe uscirne qualcosa di buono?

«Si potrà parlare di queste cose quando la si smetterà di brevettare la vita. Fino a quel momento questi discorsi sono assolutamente astratti. L’industria vuole farne solamente una questione di tecnologia; io insisto nel dire che invece è una questione di proprietà della vita, di brevetti ottenuti in modo illegittimo. Un seme non è inventato, la vita non è inventata; mettere un gene tossico in una pianta non significa inventare la pianta stessa. Il giorno in cui le compagnie diranno in pubblico “Ecco i nostri brevetti, li revochiamo tutti. E ora parliamo di tecnologia”, sarà il giorno in cui penso che il settore pubblico possa tornare ad essere rilevante. Il problema è che il settore pubblico è distrutto: le università hanno subito tagli di risorse per la ricerca, e molti studiosi sono stati licenziati in seguito alle misure di austerity».

 

Chi sono gli “agricoltori custodi”?

«Sono agricoltori che selezionano e conservano i semi, e che capiscono quali possono tollerare meglio malattie o siccità in un determinato territorio. Mi piacerebbe molto un mondo in cui ci potesse essere una collaborazione fra scienziati e contadini. Con la nostra associazione Navdanya abbiamo attivato in India delle partnership di questo tipo. Durante il “Festival dei semi, del cibo e della democrazia della terra” di Firenze, invece, il dottor Salvatore Ceccarelli ha portato la sua esperienza decennale nel miglioramento genetico partecipativo, condotta direttamente con le comunità agricole in Paesi come Siria, Giordania, Algeria, Etiopia, Eritrea, Yemen e Iran con lo scopo di conciliare l’aumento delle produzioni agricole, l’aumento della biodiversità e l’adattamento delle colture ai cambiamenti climatici. Sarei lieta di vedere più esperienze di questo tipo».

 

In cosa consiste il “Manifesto di Firenze”? E perché è stata scelta proprio questa città per elaborarlo?

«Il “Manifesto di Firenze” è la carta redatta durante l’incontro internazionale dei movimenti per la salvaguardia delle colture tradizionali e della democrazia del cibo che si è avuto in questi giorni. È molto importante che sia stato elaborato, firmato e presentato a Firenze, perché questa è la città in cui è iniziato il Rinascimento, e il Rinascimento ha creato un’altra visione del mondo, rendendoci molto più consapevoli del nostro rapporto con la natura. Una città in cui si è sviluppato un approccio molto più profondo con la scienza, grazie al lavoro di Leonardo Da Vinci, molto diverso dalla cosiddetta “scienza” di chi lo aveva preceduto, riduzionista e meccanicista. C’è poi l’aspetto economico, e la crisi che stanno vivendo l’Italia e il sud dell’Europa. Ho partecipato in questi giorni a una riunione di giovani agricoltori che vorrebbero fare il proprio lavoro, ma che non possono perché non gli vengono dati i mezzi per farlo. Al 50% dei giovani dell’Europa meridionale è stato detto che non avranno un futuro, e in più gli si vogliono togliere risorse come i semi, le terre e l’acqua, che potrebbero dare loro di che vivere».

 

Quale appello vuole lanciare ai molti lettori che La seguono sul blog “Madre terra” de La Stampa on-line?

«Vorrei dire a tutti che ci è stato mostrato in modo molto falso come funziona il mondo e come è l’economia, e che questo falso modello ha distrutto la nostra biodiversità, le terre e molti mezzi di sussistenza. Ora dobbiamo ridefinire l’economia. Nella nuova economia di cui abbiamo bisogno la terra non è una merce da comprare e vendere, e sono le persone che hanno l’intelligenza creativa e le capacità produttive. E non stiamo dicendo ciò in modo puramente teorico. Stiamo lavorando con intere comunità di disoccupati a cui vengono date terre da lavorare. Stiamo connettendo il problema della disoccupazione nell’Unione europea con quello della degradazione e della privatizzazione delle risorse dando soluzioni creative su molti livelli. E lottando per difendere la terra e i semi in quanto beni comuni ed eredità per le generazioni future».

Andrea Bertaglio

Fonte: LaStampa.it

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