Per l’obiettore di coscienza Vincent Cheynet, il liberalismo, sia economico che culturale, ci ha fatto perdere la nozione di libertà.

Vincent Cheynet, dopo aver lavorato nella pubblicità, ha cambiato radicalmente la sua vita e ha fondato nel 1999 l’associazione e il giornale Distruttori di pubblicità, diventato nel 2003 La Décroissance, mensile indipendente a cui collabora la maggior parte degli obiettori alla crescita francesi. Nel suo ultimo libro, Décroissance ou décadence (Decrescita o decadenza), analizza la volontà di libertà senza limiti che si manifesta nelle nostre società. La Vie (settimanale francese cattolico di attualità, ndt), che non ha paura del confronto, l’ha incontrato a Lione, dove egli dirige il mensile La Décroissance.

La Vie. La decrescita viene considerata per lo più da un punto di vista economico. Nel suo libro è trattata piuttosto da un punto di vista antropologico. Perché?

Vincent Cheynet. Perché la decrescita affronta in primo luogo una sfida antropologica… I termini crescita, sviluppo – fosse anche «durevole»… – liberalismo, liberal-liberismo, progresso o produttivismo fanno parte di una stessa ideologia: quella dell’illimitato. Il filosofo e psicanalista Cornelius Castoriadis (1922-1997) osservava: «Siamo entrati in un’epoca di illimitatezza in tutti i settori (…). La società capitalista  oggi è una società che a mio modo di vedere corre verso l’abisso da tutti i punti di vista, perché è una società che non si sa autolimitare.»

Questo non riguarda dunque soltanto il settore dell’economia, ma anche quello della cultura e dei modelli di comportamento. La crescita è un «fattore totalizzante» che ingloba tutte le dimensioni della nostra vita e della nostra società. Viviamo in società il cui fondamento è la rimozione, la trasgressione e la distruzione di ogni limite. Come ci ricorda il filosofo Jean-Claude Michea, il liberalismo economico «di destra» e il liberalismo culturale «di sinistra» non si contrappongono, ma fanno sistema. Sono lo stesso lato di un nastro di Möbius (questo nastro, chiuso ad anello dopo aver fatto fare una torsione di 180 gradi a uno dei lati corti, creato dal matematico tedesco  Möbius nel 1839,  possiede un solo lato, ndr.). È sulla base delle stesse argomentazioni che si rivendica, per esempio, il diritto a lavorare di domenica e la liberalizzazione del consumo di droghe. Orbene, il limite è un fattore intrinseco alla condizione della vita umana e alla libertà. La distruzione della natura è la conseguenza di questa incapacità a fissarci dei limiti. Congiuntamente la disgregazione sociale, che ne è la conseguenza, apre la via ai fanatici e agli integralisti di tutte le varietà.

Questa analisi è condivisa tra i sostenitori della decrescita?

Non necessariamente. La decrescita è un movimento molto articolato, non c’è che dire…  Alcuni  rivendicano di essere sostenitori della decrescita pur mantenendo un approccio di ecologia scientifica pura. A mio avviso costoro non entrano nel cuore del problema. La decrescita afferma che tutte le soluzioni richiedono prima di tutto l’affrancamento da una lettura contabile della condizione umana. Ma «quando si ha un martello nella testa, si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi», è solito ricordare l’economista e obiettore di coscienza Serge Latouche. Tutti i grandi precursori della decrescita: Jacques Ellul, Ivan Illich, Bernard Charbonneau… ricordano questa condizione preliminare.

Lei si pone molte domande sul significato delle parole che noi usiamo nelle discussioni pubbliche. Perché?

«Si legano i buoi con le corna e gli uomini con la parola», dice il proverbio. È pertanto necessario non lasciarsi intrappolare dal vocabolario che tentano di imporci i nostri avversari. Per esempio dietro l’alibi della critica «ragionevole», i concetti di «sviluppo sostenibile», di «crescita verde», di «economia circolare», o, ancora, di «transizione» costituiscono altrettante trappole retoriche per rinchiuderci nell’ideologia dell’espansione infinita.

Lei fa parte dei rari ecologisti che hanno espresso il loro scetticismo nel corso delle discussioni sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. È anche questo per ragioni antropologiche?

Questo dibattito, complesso, è stato sin dall’inizio bloccato dalla logica binaria del nostro tempo, ampiamente diffusa dai grandi media. In questo caso, o si era gayfriendly, oppure omofobi. Questo modo di fare è stupido. Si può facilmente capovolgere questa retorica sostenendo che è questa impostazione, a rigor di logica, omofoba, poiché ci fa passare da un indispensabile diritto alla differenza a un mortifero «diritto alla negazione della differenza». Come se fosse necessario che una pratica o uno stato di fatto entri ufficialmente nella norma per essere accettabile e accettato… Ma soprattutto si passa dalla logica del dono a quella del «diritto a un figlio». Questo significa voler piegare la natura ai desideri e alle fantasie degli adulti. Si manifesta qui la nostra incapacità di accettare i limiti che ci dà la natura. La legge del matrimonio per tutti contribuisce ad aprire il vaso di Pandora di tutte le rivendicazioni che ci portano dritti al Mondo nuovo descritto da Aldous Huxley, dove la produzione dei bambini è un processo esclusivamente tecnico per soddisfare i bisogni del momento. La legge del matrimonio per tutti costituisce una chiave simbolica verso questo mondo disumanizzato. È un puro prodotto dell’ideologia utilitarista e capitalista, che reifica le persone e nega le loro identità, a cominciare dalla prima di esse, l’identità sessuale. Questa cancellazione delle identità mette le persone nella posizione di prede ideali per il mercato.

Il matrimonio per tutti sarebbe dunque un prodotto del capitalismo?

Constato che la grande borghesia liberale, i grandi media e i filosofi mediatici, lo show-business, le multinazionali, sono stati ferventi sostenitori di questo progetto. In questa stessa prospettiva, ma sul piano economico, questi gruppi d’interesse difendono con la stessa determinazione la concentrazione del capitale mediante il progetto europeo, maschera del capitalismo.

Sono anche costernato a vedere che le autorità ecclesiastiche sostengono a spada tratta la linea «europeista». Bossuet a suo tempo ha scritto che «Dio ride delle persone che deplorano gli effetti di cui amano le cause»… Del resto, ha sottolineato Thierry Jaccaud, caporedattore della rivista L’Écologiste, in relazione alla legge sul matrimonio: «che questa logica ultra-liberale e ultra-individualista si ritrovi nel progetto di legge di un governo di sinistra è desolante.» Se la «reazione» consiste nel rifiuto dell’osservazione scientifica della nostra condizione umana per cedere a un approccio emotivo, affettivo, dunque arcaico, si possono allora considerare i sostenitori dell’indifferenziazione sessuale come i veri «reazionari». Questo sembra inevitabile, dal momento che il terrorismo intellettuale appare come elemento costitutivo del loro modo di agire. Jean-Claude Guillebaud ha ragione a definirli i nuovi pudibondi. Quanto a Michel Onfray [famoso intellettuale francese ateo] possiamo – per una volta! – salutare la sua libertà intellettuale quando conclude a questo proposito: «Verrà il giorno in cui faremo il bilancio delle devastazioni effettuate da questa sbalorditiva ideologia postmoderna. Quando? E dopo quale ammontare di danni?»

La cultura cristiana è molto presente nel suo libro. Come percepisce l’ostilità che si manifesta a volte, ai nostri giorni, nei confronti della religione?

Questa domanda mi sorprende, perché io sono francese e la nostra cultura è greco-latina, sia che io mi definisca ateo o credente. .. Io non ne posso prescindere a meno di effettuare una rimozione. L’odio attuale nei confronti della religione va di pari passo con quello nei confronti della psicanalisi. Perché? Perché entrambe si basano sull’idea che l’essere umano ha una parte di privazione, d’insondabile. Orbene, l’ideologia progressista, scientista, pretende di oggettivare integralmente la condizione umana. Parallelamente dichiara passatisti, «reazionari» – in breve, eretici – coloro che obiettano che una parte di noi resterà per sempre un mistero, e peggio: che è una cosa felice!

Lei spiega che questo rifiuto di accettare la privazione è una caratteristica di una società caratterizzata dal matriarcato. Cosa vuol dire?

L’«età del seno» è il periodo in cui il neonato risponde in maniera istintiva a tutte le sue pulsioni. A questo stato ci vuol far regredire la società dei consumi. Ma poiché non possiamo tornare ad essere dei neonati, ci trasformiamo semplicemente in adulti malati. In termini psicoanalitici, il padre ha un ruolo fondamentale nell’insegnamento dei limiti poiché interviene a separare il figlio dalla madre. Egli insegna al bambino la frustrazione, la privazione, il no. Si capisce allora che la società dell’illimitato fa di tutto per squalificare questa figura.

Questo riconduce alla sua frase secondo la quale «la decrescita è dire no». Ma si può davvero portare una visione positiva del mondo restando permanentemente all’opposizione?

L’obiettivo, naturalmente, non è di collocarsi in un no sistematico, che sarebbe altrettanto stupido di un sì assoluto. Si tratta di stare nel discernimento, ovvero di essere capaci di dire sì e no. Orbene il liberalismo è un’ideologia accomodante che impedisce di dire no. Bisogna avere un «atteggiamento positivo» (come dice la pubblicità dei centri commerciali Carrefour), non fare mai resistenza, per non pagare il prezzo di «vedere il bicchiere mezzo vuoto»

Lei dà molta importanza al concetto di «pace negativa». La partecipazione alla vita sociale richiede dunque di assumere le sue tensioni?

La «pace negativa» è uno scoglio costante di tutti i sistemi, religiosi e politici. Consiste nel rifiuto di rendere manifeste le tensioni che attraversano necessariamente la nostra condizione per paura del conflitto, per cui approda inevitabilmente alla violenza. Il dire sempre di sì a tutto dei benpensanti costituisce la peggiore forma d’inquinamento del pianeta. I buoni sentimenti sono un vizio che ha il solo effetto di alimentare il narcisismo di chi li enuncia. Io dico spesso che ciò che c’è di più positivo nella decrescita è il suo carattere negativo.

Intervista di Mahaut Herrmann

traduzione di Maurizio Pallante

 

 

 

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