Così come i pensatori deboli negano l’esistenza della verità incontrovertibile, affermando tuttavia con verità che la verità non esiste, allo stesso modo gli artisti contemporanei, che si definiscono post-ideologici, si illudono di abitare i luoghi dell’avanguardia libertaria e dichiarano a viva voce la loro alterità rispetto a qualsivoglia sistema di pensiero costituito; ma sottoponendosi alle rigide norme del mercato e piegandosi alle richieste dei galleristi finiscono per operare, forse senza neppure saperlo, all’interno di un orizzonte rigidamente ideologico, colonizzato dalla tirannia del nuovismo mercificato. In cuor loro, gli artisti – o pseudo tali – di regime (e il regime è quello del mercato) credono di esprimersi senza corrispondere ad alcun orizzonte culturale definito, quando operano invece seguendo il comandamento progressista che impone necessariamente di produrre qualcosa di nuovo, perché – è questa la convinzione del mainstream – solo il nuovo dà il segno del progresso, e solo il progresso consente all’arte – così come a qualsiasi altro campo dell’umano – di migliorare le condizioni culturali e vitali dell’umanità. Ubriachi di progressismo innovatore, nessuno fra i tecnici dell’arte scorge l’assurdità e la palese contraddizione di questo ragionamento; nessuno comprende che chi si propone di superare necessariamente i valori della tradizione precedente, lo fa soggiacendo a un altro potere, a un’altra ideologia che impone il «nuovo» come valore in sé. Ma è giunto il momento di dire che il binomio nuovo-meglio è un’indecenza di cui dobbiamo liberarci, se non vogliamo continuare a sottostare al potere dispotico del mercato. Chi può, infatti, pensare seriamente di sostenere che ciò che viene dopo, ed è quindi più nuovo, sia de facto migliore di ciò che c’era prima? È ammissibile ritenere che Giotto sia minore di Fontana solo perché ha espresso il suo genio ottocento anni fa? E parimenti che Dante, Petrarca o Manzoni siano inferiori al ben più «giovane» Baricco?

Sia chiaro, la cultura è sempre vissuta nell’ottica del rinnovamento, ma nuovo non vuol dire per forza migliore, né tanto meno necessariamente del tutto originale o diverso rispetto al passato. E soprattutto nuovo non vuol dire migliore se chi opera nella novità non ha niente da dire, non è capace di dire, non sa cosa dire. E sul concetto di «nuovo», poi, è necessario fare una riflessione ulteriore. Si può essere nuovi anche recuperando delle suggestioni classiche, medievali, rinascimentali o romantiche, reinterpretandole nei modi che il singolo artista ritiene più opportuni. Il nuovo concepito dalla società contemporanea è invece il risultato di qualcosa di spendibile come nuovo, di qualcosa che stimola la fantasia, il desiderio e quindi l’acquisto del prodotto artistico, che diventa a tutti gli effetti merce di scambio. Per essere desiderabile, l’oggetto d’arte deve corrispondere agli interessi degli acquirenti, che a loro volta commerceranno la merce-arte vendendola, dopo adeguata rivalutazione, al miglior offerente: questo meccanismo, innescato dal capitalismo e ormai dilagante, ha trasformato, per la prima volta nella storia umana, lo spazio dell’arte in mercato dell’arte (nelle epoche passate, infatti, mai nessuno ha pensato di lucrare sulle pitture, sulle sculture, sui saggi o sui libri: le opere avevano un fine in sé, erano fatte per la bellezza, per la contemplazione, non per altro). Il mercato necessita di movimenti, di scambi, di contrattazioni prodotte dal desiderio indotto di possedere qualcosa che incrementi col tempo il suo valore. L’opera d’arte, in un certo senso, diventa moneta sonante, ha la sua stessa funzione: si rivaluta col passare degli anni.

Dicevo del desiderio legato all’acquisto di qualcosa di nuovo, di qualcosa che sia quindi semplice da comprendere, da trasportare, da scambiare. Ma queste esigenze, si badi, non le ha solo l’acquirente, bensì anche il venditore, l’artista, che per inserire i suoi «prodotti» nel mercato dell’arte deve dar corpo a qualcosa di riproducibile, serigrafabile. Il prodotto in serie consente, infatti, all’autore non solo di esporre le copie delle sue opere ovunque, ma anche – e soprattutto – di aumentare esponenzialmente i suoi guadagni, dato che da un solo originale si ricavano centinaia di riproduzioni commerciabili in ogni parte del globo terrestre. Chi nega questo aspetto deviante del mercato artistico contemporaneo è fuori dal mondo. Che senso avrebbero, d’altronde, le copie d’autore, le stampe o le serigrafie se il mercato dell’arte non fosse, appunto, un mercato sempre in cerca di nuova merce da immettere in circolazione? Se l’arte fosse fine a se stessa avremmo solo opere uniche, create in un luogo e in un tempo ben precisi, al solo scopo di far vibrare la bellezza. E lo scopo, è questo un punto centrale, non è mai secondario, anzi, lo scopo qualifica le azioni. Ciò vuol dire che chi opera avendo come fine la bellezza agirà in modo ben diverso da chi punta a conseguire il successo, la ricchezza o la fama.

Per sfondare nel mercato dell’arte contemporanea bisogna essere dinamici, al passo coi tempi, è necessaria la rapidità di esecuzione, e la rapidità, a sua volta, ha bisogno di semplicità, che, per inciso, non vuol dire ordine, ma immediatezza tecnica (immediatezza che però rasenta spesso l’«incapacità di fare»). È dunque importante tener presente che semplicità e ordine sono concetti che non possono essere considerati né sinonimi, né correlati. E veniamo allora a spiegare il motivo per cui ho inteso centrare questa mia riflessione sull’arte e sull’entropia, che è la misura del disordine. In questo brevissimo saggetto affronterò proprio il tema del rapporto fra l’ordine e l’arte, o meglio tenterò di mostrare come l’aumento eccessivo del disordine comporti una netta riduzione del valore artistico e svilisca l’oggetto arte a oggetto di consumo, a merce.

  1. Entropia e arte

Così come in natura l’aumento dell’entropia comporta un inesorabile dispendio energetico, con relativo incremento dell’impatto antropico distruttivo sul cosmo, allo stesso modo l’aumento dell’entropia nell’arte provoca una degradazione della forma e un conseguente svilimento dell’arte stessa. Si noti, però, che nel mondo fisico la degradazione energetica – che è peraltro un fenomeno naturale – diventa nociva solo quando accade in quantità superiori a quelle che il cosmo è in grado di rigenerare. Ugualmente, allargando il discorso all’ambito delle azioni spirituali compiute dall’uomo, potremmo dire che l’entropia distruttiva scompagina le elaborazioni artistiche rendendole incomprensibili, o il che è lo stesso, l’aumento dell’entropia è inversamente proporzionale alla comprensibilità dell’opera. Il disordine strutturale, infatti, determina un’ipertrofia della forma. E anche quando il gesto artistico sembra semplice, immediato o elementare, in realtà la forma resta ipertrofica, grezza, complessa, non chiara. Ciò sta a significare, allora, che, in modo estensivo, col termine entropia si può intendere anche la misura dell’assenza di forma, o ugualmente la misura della carenza di un’organizzazione estetica.

Ma anche per l’arte, si badi, l’incremento di entropia entro limiti ragionevoli è fisiologico e persino indispensabile. Nel senso che se l’artista si propone di superare l’ordine estetico del passato, in un certo qual modo deve essere egli stesso portatore di caos e depositario di un gusto rivoluzionato. Il disordine entropico provocato dalle rivoluzioni culturali è allora indispensabile al mantenimento e al progresso (non inteso in senso illuminista) della cultura stessa, che viene necessariamente rivista in considerazione del contesto esterno e delle problematiche reali che mutano quotidianamente. Il problema, tuttavia, è sempre la misura del disordine, perché nell’arte come in natura, quando si oltrepassa il limite si rischia il disfacimento dell’intera struttura. Sicché nel momento in cui l’entropia artistica valica il limite della rappresentabilità significante, il disordine complessivo che ne deriva rende l’opera illeggibile e incomunicabile. È a questo punto che l’entropia – ormai fuori controllo – distrugge l’arte e rende insignificante il risultato artistico.

Perciò, nell’accettare l’entropia come portatrice di caos necessaria al progresso artistico, si tratta di capire quanto disordine può sopportare l’arte. Una lunga tradizione risalente alla filosofia greca intende l’arte principalmente o interamente impegnata nella produzione di ordine, armonia, proporzione. E di questo credo sia utile dire ora qualcosa.

  1. Arte, ordine e disordine

L’arte è azione. È precisamente quell’azione creativa da cui nasce la cultura. Cultura e azione sono quindi fra loro intrecciate, e proprio questo è il motivo per cui non è possibile scindere l’ambito dell’arte dall’artigianato. Non c’è mai arte senza un saper fare, senza un essere in grado di… Il risultato del gesto artistico è davvero un’opera d’arte solo quando è portatore di un valore estetico, quando risponde all’esigenza del bello, al di fuori di ogni preoccupazione di carattere morale o utilitaristica. In questo senso, dunque, il fine dell’arte è l’arte stessa, il che vuol anche dire che il prodotto dell’arte è solo arte e non un prodotto commerciale. L’arte non ha prezzo, non è valutabile.

Quanto al rapporto tra l’arte, l’ordine e il disordine si potrebbe pensare che la semplicità cui spesso rimanda l’arte contemporanea determini una riduzione del caos e quindi una riduzione dell’entropia. In realtà non è così. Quella che può sembrare a prima vista un’opera di apparente semplicità è solo «semplice realizzazione tecnica», ma se si guarda in profondità si scorge il risultato concettuale di un caos mentale, di una mancanza di chiarezza, di una totale assenza di ordine e di struttura. Il gesto tecnico apparentemente semplice cela nel suo sottosuolo il caos. Il gesto apparentemente semplice è il dissolvimento disordinato della struttura, della visione, è l’incapacità di fare, elevata a valore estetico.

Si tratta di capire, allora, che il ritorno a un ordine essenziale, a una struttura, a un «saper fare» ordinato è oggi essenziale per salvare l’arte da una confusione illimitata. L’assenza di limite, infatti, non consente più di discernere il gesto artistico dallo scarabocchio. Il mercato richiede quantitativi sempre maggiori di opere da vendere, scambiare, valutare. Alla lentezza della produzione artistica si sostituisce la rapidità dell’esecuzione che consente all’artista del momento sempre maggiori guadagni (il che peraltro è assurdo se si pensa alla legge della domanda e dell’offerta: con quantitativi di merce maggiore dovrebbe avvenire esattamente il contrario). Gli artisti di regime producono a ritmi sostenuti e vendono persino riproduzioni di loro opere (copie, stampe, serigrafie).

Il mercato è uno dei maggiori portatori di caos. Ma non di quel caos necessario all’evoluzione artistica, bensì di quel caos disabilitante, di quel caos che uccide l’arte rendendola mercato. L’arte economizzata non ha più niente da dire, perché non si propone di dire alcunché. Deve solo essere venduta, non compresa. Il disordine che la costituisce ne determina l’incomunicabilità. L’entropia distruttiva che la genera travolge il significato e il gusto.

Dicevo del disordine necessario all’arte per rinnovarsi. Ma al giusto disordine fa da contraltare il giusto ordine. D’altronde non potrebbe essere altrimenti: qualunque cosa la mente umana si trovi a dover o voler comprendere, l’ordine ne è una indispensabile condizione. Perché i sensi, prima di tutto, colgono l’ordine e l’organizzazione strutturale; senza organizzazione non c’è comprensione, non c’è possibilità di veicolare un senso, un messaggio, un’emozione, un linguaggio. L’ordine e il disordine sono due metà della stessa mela, si amano, si stringono. Per questo motivo innovare il linguaggio (compito del disordine) non significa rendersi incomprensibili, ma vuol dire vedere con parole, immagini e valori nuovi la realtà, così come la fantasia, il sogno, rispettando la corresponsione significante (compito dell’ordine). Quando manca l’idea, quando tutto è affidato al caso, si ottiene caos entropico distruttivo. Questo è ben visibile nell’ambito artistico in generale, e a maggior ragione lo si coglie anche a livello urbanistico. Le nostre megalopoli vengono costruite senza una chiara idea di mondo, di città, di comunità. O meglio, l’idea è quella del profitto, della massimizzazione della ricchezza, della marginalizzazione delle povertà.

  1. Ordine, disordine, anarchia

La rivoluzione necessaria all’arte è la rivoluzione anarchica. L’arte contemporanea, che si pone come obiettivo il superamento dei canoni estetici del passato, ambisce ad essere rivoluzionaria. Il punto, però, è che la sua tensione rivoluzionaria è fine a se stessa, si limita a disarticolare il vecchio ordine per proporne uno nuovo, il caos. Il caos è il nuovo «ordine del disordine», è la nuova ideologia, il nuovo verbo rivelato. Il caos consente a chi ha potere di gestire come meglio crede la situazione. Il caos consente di spacciare per opera d’arte un’autentica immondizia. Tutto è fatto con caos, e in tal modo il caos assume le sembianza dell’ordine, il caos diventa «sistema» proprio nel momento in cui si ammette il superamento dell’ordine passato come valore, come ideologia.

Con ciò, voglio dire che esiste anche un ordine del disordine. Una composizione musicale disordinata non è priva di ordine, ma segue un ordine del disordine, per quanto casuale. Le note sono sempre alternate da pause; il ritmo, per quanto a-ritmico è pur sempre ritmo. Ma l’a-ritmicità di un ritmo è dato dal fatto che ogni singola nota e ogni singola pausa sono fra loro irrelate. Il disordine è quindi dato dal caos tra i vari ordini irrelati fra loro. Quando, ad esempio, si parla di disordine mentale non si intende dire che i ragionamenti di un folle sono in assoluto disordinati, ma che sono fra loro sconnessi. Nell’ordine del disordine di un matto ogni singolo pensiero non è connesso a ciò che segue e ciò che precede: è questo il motivo per cui consideriamo i suoi ragionamenti disordinati. Ma, lo ribadisco, non esiste un disordine assoluto. Perché il disordine in quanto disordine è ordine del disordine. È un po’ come chi nega la verità, che nel farlo la afferma. Chi nega l’ordine ne afferma un altro che chiama disordine.

Qualcuno potrebbe allora domandarmi il motivo per cui io sia contrario a considerare l’arte come il regno dell’ordine del disordine. Al momento penso di poter dire questo: l’arte necessita di un ordine significante, perché altrimenti diverrebbe incomunicabile. E inoltre l’arte deve essere fine a se stessa, non deve avere dunque altri scopi: l’ordine del disordine invece impone all’arte lo scopo del mercato, del profitto, dei guadagni. L’ordine del disordine, oltre ad essere contraddittorio – perché nega ciò che è, ovvero nega l’ordine (per questo motivo è un disordine) ma a sua volta si eleva ad ordine – sfinisce l’arte, sfianca il gesto artistico, svaluta il «saper fare». L’artista del mercato punta a produrre in vista della vendita, del gusto contemporaneo. Egli è schiavo, servo di regime. Egli non sa nulla della libertà. L’arte liberata dai legacci della produzione è invece l’arte agita da intellettuali che prendono coscienza della propria libertà. Libertà dalle coercizioni, dai mercati, dal pensiero esterno, dalla significanza stabilita dal potere, così come dall’insignificanza imposta dal mainstream. L’arte è libertà quando è arte del cuore, quando è arte che proviene dall’interiorità, quando è gesto spirituale fine a se stesso.

  1. L’arte liberata, decrescita e anarchia

Dalla riflessione sull’arte e l’entropia non emerge una nuova teoria artistica, un nuovo codice valoriale, un nuovo ordine culturale. Emerge invece un orizzonte liberato dal dominio del mercato, un nuovo orizzonte popolato da valori conviviali e fraterni verso cui ognuno si dirigerà come meglio crede o sa. Non forme o sistemi artistici precostituiti, bensì proposte estetiche da seguire in piena libertà. Come questi concetti si possano poi scolpire, dipingere o scrivere è questione che riguarda il singolo artista, non certo la critica, e quindi non riguardano neppure noi. La riflessione sull’arte e la decrescita serve a stimolare il dibattito sull’arte contemporanea e i suoi vizi, serve a indicare un nuovo modo di relazionarsi alla realtà e alla spiritualità. Ma nessuno qui pensa di sostituire un codice estetico ad un altro: non è certo questo il luogo in cui si dà vita a una nuova corrente artistica. Qui si gettano solo le basi per la rivoluzione, che appunto proprio in quanto – e volontariamente – anarchica lascia tutte le strade aperte alle soluzioni, che ognuno avverte come le più appropriate.

Quando gli artisti cominceranno ad operare senza vincoli esterni e senza canoni calati dall’alto, la critica artistica sarà solo un triste ricordo del passato. I critici smetteranno la loro funzione di censori di regime. D’altronde i critici non sono altro che artisti frustrati, sognatori mancati. Chi non è in grado di fare l’artista generalmente diventa critico. E il critico critica, separa, in virtù di uno schema stabilito da altri. Ma la critica serve fintantoché l’arte produce beni di consumo da valutare. Quando però l’arte verrà sottratta al mercato da operazioni artistiche decrescenti e anarchiche, i critici non serviranno più. Nel momento in cui l’oggetto d’arte diventerà un oggetto a-valutato (e, si badi, non s-valutato, ma iper-valutato, e proprio in quanto iper-valutato, fuori da ogni valutazione), il critico d’arte diventerà de facto un oggetto d’antiquariato.

 

Alessandro Pertosa

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