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Sebbene di tanto in tanto venga annunciata la fine della crisi economica, la buona novella viene sempre accompagnata dalla precisazione che la ripresa di cui si vedono i segnali è debole, la crescita sarà modesta e non comporterà una diminuzione della disoccupazione. Gli strumenti tradizionali della politica economica continuano a dimostrare di non essere in grado di risolvere il problema più grave che attanaglia la nostra società.

A partire da questa constatazione e dal fatto che la crescita economica non ha comportato una crescita dell’occupazione nemmeno nei decenni in cui ha avuto i massimi incrementi   (in valori assoluti il numero degli occupati è lo stesso del 1960 sebbene la popolazione italiana sia aumentata di dieci milioni di abitanti) diventa necessario esplorare altre strade.  Occorre rimettere in discussione il dogma della crescita,  perché, oltre a essere la causa di problemi ambientali sempre più gravi, impone alle aziende  di investire in tecnologie che accrescono la produttività, che consentono cioè di accrescere la produzione riducendo al contempo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Da ciò deriva un aumento dell’offerta e una diminuzione della domanda di merci, a cui, a partire dagli anni del boom economico, si è fatto fronte ricorrendo in misura sempre maggiore al debito pubblico e incentivando l’indebitamento  dei privati, fino al punto di essere costretti a fare debiti per pagare gli interessi sui debiti fatti in precedenza. In conseguenza di ciò, se si decide di ridurre il debito con politiche di austerità si riduce la domanda e si aggrava la crisi. Se invece ci si propone di ridurre la disoccupazione con misure finalizzate alla crescita occorre aumentare la domanda e, di conseguenza, i debiti.

Questa situazione può essere sbloccata solo sviluppando le innovazioni tecnologiche che accrescono l’efficienza nell’uso dell’energia e delle materie prime perché riducendone il consumo a parità di servizi, consentono di recuperare il denaro necessario a pagare l’occupazione in attività lavorative che attenuano la crisi energetica, climatica e ambientale senza ridurre il benessere materiale e migliorando al contempo la qualità ambientale. La crisi non si supera e non si crea occupazione tentando di rilanciare i consumi, come sostiene la variegata schiera dei sostenitori della crescita: dai populisti in cerca di consensi elettorali o con la promessa di eliminare le tasse o con l’elargizione di denaro in busta paga a ridosso di una scadenza elettorale, ai green-economisti imbambolati dal miraggio dello sviluppo sostenibile, ai tardo-keynesiani a cui sfuggono i cambiamenti avvenuti dagli anni trenta a oggi: riduzione delle disponibilità di fonti fossili, effetto serra, alterazioni dei cicli biochimici, accumulazione di rifiuti.

Ciò che occorre è uno straordinario slancio progettuale, simile a quello che ha consentito la ricostruzione post-bellica, incentrato su una decrescita selettiva e guidata dei consumi di materia e di energia che si sprecano, non hanno alcuna utilità e creano danni ambientali e alla salute. Ciò che occorre è una evoluzione dell’economia in bio-economia, la sostituzione del più col meglio sapendo che il meglio non si identifica sempre col più, ma a volte coincide col meno.

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