Canosio, 11 ottobre 2014

Caro Totò,

sul Fatto quotidiano on line del 6 ottobre è stato pubblicato un trafiletto che riportava un intervento del capo del personale della Volkswagen, Horst Neumann, sul giornale tedesco Sueddeutsche Zeitung, a cui non è stato dato molto risalto dalla stampa italiana, anche se, a mio parere, spiega le cause della crisi in modo chiarissimo e non paragonabile alle fumose analisi con cui cercano di rimbambirci gli economisti italiani. Tipo questa dichiarazione rilasciata dal ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, lo scorso 24 settembre, al ritorno dall’Australia, dove aveva partecipato al G20: «Per definizione una crescita nominale così bassa, data da crescita reale negativa e inflazione molto bassa, è un problema in più per la dinamica del debito. Se la crescita nominale fosse più in linea con gli obiettivi della Bce, l’Italia vivrebbe su un pilota automatico. Il nostro surplus strutturale al netto degli interessi, più tassi d’interesse ragionevolmente bassi sul debito e una crescita nominale superiore al 2 per cento, sommando un po’ di crescita reale e un po’ di inflazione, darebbero risultati chiari: il debito sarebbe in calo a velocità più che soddisfacente».

A partire dalla definizione di crescita negativa, che è un’assurdità logica (a chi salterebbe in mente, per fare due esempi, di definire gioventù negativa la vecchiaia, o intelligenza negativa l’incapacità di capire?), sarebbe stato quasi impossibile esprimersi in maniera più contorta per dire alla fin fine un concetto che la saggezza popolare ha espresso con la frase: «se mio nonno avesse avuto le ruote sarebbe stato un tram». Che è più efficace e meno inutilmente complicata, ma non è stata inventata da un economista, per di più con esperienza a livello internazionale.

Il capo del personale della Volkswagen è stato, invece, di una semplicità disarmante. Ha detto che nei prossimi anni andranno in pensione 32.000 dipendenti, ma non potranno essere rimpiazzati da nuovi assunti perché la concorrenza internazionale non lo consente. Nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è superiore a 40 euro all’ora, mentre nell’Europa dell’est è di 11 euro e in Cina di 10. In queste condizioni l’unica possibilità per rimanere competitivi è la sostituzione degli operai con robot, che attualmente per lo svolgimento dei lavori ripetitivi hanno un costo orario di 5 euro, destinato ad abbassarsi in conseguenza dell’evoluzione tecnologica del settore.

La domanda che sorge spontanea a questo punto è: ma i robot comprano anche le automobili che contribuiscono a produrre? Hanno bisogno di cibo e vestiti? Di una casa, di un letto e delle coperte? Vanno al cinema o in vacanza al mare? Mandano i figli a scuola? Non ci vuole molto a dedurre che la sostituzione delle operaie e degli operai con macchine che producono di più e costano di meno, comporta un aumento dell’offerta e una diminuzione della domanda di merci. E questa è la causa della crisi iniziata nel 2008, che secondo l’attuale ministro del Tesoro ha comportato una riduzione del Pil superiore alla quella causata dalla grande depressione del 29. Una crisi da cui non si riesce a venir fuori, né ci si riuscirà, se si continuerà a pensare che il fine dell’economia sia la crescita della produzione di merci e la globalizzazione sia una cosa buona. Il fatto è che i due fenomeni sono inscindibili: le economie dei paesi industrializzati non possono continuare a crescere se non cresce il numero dei produttori e dei consumatori di merci al di fuori dei loro confini, se non possono continuare a rifornirsi al di fuori dei loro confini delle quantità crescenti di materie prime e di fonti fossili di cui hanno bisogno, se non possono vendere quantità crescenti dei loro prodotti al di fuori dei loro confini. Ovvero, se il modo di produzione industriale non si estende a percentuali sempre maggiori della popolazione mondiale. Ciò implica il coinvolgimento nelle dinamiche del mercato globale di paesi in cui costi e tutele dei lavoratori sono inferiori. Senza globalizzazione le economie dei paesi di più antica industrializzazione non crescono, ma la globalizzazione le mette in crisi. Per sostenere la concorrenza internazionale, questi paesi hanno tre possibilità: sostituire i lavoratori con macchine aumentando la disoccupazione, trasferire le proprie aziende nei paesi in cui il costo del lavoro è più basso, ridurre il costo e le tutele dei lavoratori nei propri paesi. In tutti e tre i casi, le condizioni di vita dei loro popoli sono destinate a peggiorare e la domanda interna a diminuire. È per questo che le loro economie sono entrate in crisi e non riescono a venirne fuori.

In questo contesto si comprende l’ostinazione con cui l’ex presidente del Consiglio Monti e la sua ministra Fornero si sono impegnati per abolire le norme dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che ostacolavano i licenziamenti senza giusta causa, riuscendoci però solo in parte. E si comprende perché con determinazione ancora maggiore ci si stia impegnando l’attuale presidente del Consiglio Renzi e perché Monti vede una continuità tra il suo governo e quello di Renzi, a cui riconosce una maggiore abilità politica. Ma si comprende anche perché, nonostante la riduzione delle tutele dei lavoratori, il nostro paese non è uscito dalla crisi, il Pil ha continuato a diminuire, la disoccupazione e la precarietà hanno continuato a crescere. Se questi sono i risultati che si ottengono, mi domando che senso abbia indirizzare i progressi tecnologici ad accrescere la produttività e ridurre l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Io credo non si sia capito che la fase storica iniziata 250 anni fa con la rivoluzione industriale è arrivata al capolinea e le misure di politica economica che fino ad ora sono riuscite a riavviare la crescita nei periodi di crisi, non funzionano più. Per uscire da questa situazione che peggiora ogni anno, occorre rendersi conto delle differenze tra questa crisi e tutte le altre che l’hanno preceduta e domandarsi se non sia arrivato il momento di rimettere in discussione il dogma della crescita.

Come fanno a non capirlo degli specialisti laureati col massimo dei voti, che hanno conseguito più di un master nelle migliori università degli Stati Uniti, hanno girato il mondo e ricoperto incarichi della massima importanza? Almeno così sembra a me, che vengo da una famiglia contadina, ho solo il diploma di maestra e non mi sono mai allontanata dai luoghi in cui sono nata. Qualche viaggio l’ho fatto, anche all’estero, ma sono sempre tornata in questo angolo di mondo appartato, dove ho le mie radici e sono sepolti i miei vecchi. Mi viene da pensare che ci sia una verità misconosciuta nella frase di Gesù riportata nel Vangelo di Matteo, 11, 25-26: hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli scaltri e le hai rivelate ai semplici. Probabilmente i sapienti e gli scaltri non hanno mai usato un flessibile, riparato le ruote di una bicicletta, vangato un orto, piantato dei pomodori. Non sono in grado di fare nient’altro che comprare tutto ciò di cui hanno bisogno e per questo, ma non solo per questo, adorano il denaro, confondono benessere con tantoavere, pensano che tutto abbia un prezzo e che i problemi economici si possano risolvere con la politica monetaria e fiscale, togliendo denaro con le tasse a chi ne ha di meno e girandolo con gli incentivi a chi ne ha di più.

Che senso ha produrre sempre di più se per produrre sempre di più occorre aumentare la precarietà, ridurre le tutele dei lavoratori e il numero degli occupati, peggiorare le condizioni di vita individuali di un numero sempre più ampio di persone e rendere sempre più conflittuali i rapporti sociali? Per non parlare delle guerre per il controllo delle risorse e dei danni ambientali causati dall’aumento dei  consumi e delle emissioni inquinanti. Ma il fine del lavoro non è il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani? Anche a me sembra, come dici tu, che qui siano asciti tutti pazzi. Non sarebbe ora di cancellare dalle nostre teste che lo scopo dell’economia sia la crescita, o lo sviluppo, che non è un obiettivo diverso come si vorrebbe far credere, ma solo, scusami per quello che sto per dire, la definizione paracula della crescita? Non sarebbe ora di finirla di pensare che la via d’uscita dalla crisi sia un fantomatico nuovo modello di sviluppo, di cui tanti parlano perché fa fine ma non significa niente, o la crescita qualitativa, che è un tentativo di rivalutare un concetto quantitativo con una generica connotazione di qualità non consentita dalla sua natura? Non sarebbe ora di liberare le attività produttive dalla finalizzazione a qualsiasi tipo di crescita, o sviluppo che dir si voglia, ristabilendo che il loro scopo è il miglioramento della qualità della vita attraverso il lavoro, come è sempre stato dalla notte dei tempi? Élemire Zolla (anche se sono solo una maestra, leggo forse di più di certi sapienti che hanno fatto il master negli Stati Uniti) riteneva che i danni provocati dal modo di produzione industriale potessero essere riparati solo una recessione ben temperata, Nicholas Geogescu Roegen da una trasformazione dell’economia in bioeconomia, Ivan Illich dal recupero della convivialità e delle culture vernacolari, il Movimento per la decrescita felice da innovazioni tecnologiche finalizzate a realizzare una decrescita selettiva della produzione di merci che non sono beni, dall’autoproduzione di beni e da relazioni fondate sul dono e la reciprocità. Questi sono gli elementi che possono liberare il lavoro dalle catene della mercificazione e della crescita, riportandolo alla sua funzione di migliorare le condizioni di vita della specie umana.

Le scelte esistenziali che abbiamo fatto con le nostre famiglie sono come la goccia d’acqua che il colibrì, nell’apologo caro a Pierre Rabhi, porta nel suo minuscolo becco per contrastare l’incendio divampato nella foresta. Serviranno a poco, ma ci fanno star bene, non solo con la nostra coscienza, ma anche nella nostra vita quotidiana, a differenza di chi si affanna dalla mattina alla sera e vive in modi devastanti per avere sempre più soldi per comprare sempre più cose da buttare sempre più in fretta. Per fortuna non siamo i soli ad andare in direzione ostinata e contraria a questa corrente, perché la follia della crescita non è riuscita, nonostante il suo impegno, a contagiare tutti.

Un abbraccio

Delfina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

One thought on “Delfina, Totò e i robot al posto degli uomini”

  1. Questo articolo è un capolavoro. In Italia non esiste nessuna persona che abbia la lucidità e la capacità di analisi di Maurizio Pallante, oltre alla sua capacità di indicare una via di uscita concreta dalla crisi. Purtroppo il mainstream suona e vuole darci ad intendere tutta un’altra musica. L’unica soluzione è cercare di diffondere conoscenza e consapevolezza come fa magistralmente Pallante. Sono fiero di far parte del MDF e di aiutare Maurizio in questa sua encomiabile e instancabile opera di riflessione e di divulgazione.

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