Si chiama Murabilia ed è una manifestazione florovivaistica non diversa in fondo da cento altre se non per l’ambientazione suggestiva delle mura urbane di Lucca e una certa attenzione a tematiche non banali. Il 5 e 6 settembre, dopo alcuni anni di assenza, sono tornato a visitarla. Quest’anno il titolo, «Piante per nutrire il mondo», meritava attenzione ma, lo ammetto, non è stato questo a riportarmi lì. Il fatto è che esser circondato da piante e da coloro che si sentono spinti a coltivarle, mi fa star bene. «Progetti giardini se credi nel futuro» disse non ricordo quale paesaggista e non c’è dubbio che avesse ragione. Se poi credere nel futuro significhi o no illudersi del futuro è tutt’altra questione e non è di essa che oggi voglio parlare.

Murabilia dunque si svolge ogni anno a Lucca, fra l’antico orto botanico e le mura, sul limitare del centro storico. Non è Murabilia né la bellezza del luogo in cui si svolge tuttavia che mi spinge adesso davanti a una tastiera bensì il contrasto inaudito, stridente fra quella bellezza, quell’implicito invito a credere nel futuro cui essa rimanda e ciò in cui ci siamo imbattuti al momento di andar via mentre, carichi di bagagli, ci stavamo avviando verso la stazione.

Ci imbattiamo dunque in un frastuono di motori ringhianti, in una puzza nauseante di gas di scarico che appesta l’aria tutto intorno, nella furia di innumerevoli clacson suonati freneticamente. E vediamo un ammasso brulicante e compatto di motociclette che procedono tutte insieme, avvolte in quelle esalazioni velenose, in quella cacofonia furiosa. Procedono lentamente, pesantemente come una viscida colata di vomito. Un’automobile dei Vigili Urbani li precede. L’ammasso si addentra nel centro storico mentre tutti pestano sempre più furiosamente sui clacson. È chiaramente una manifestazione organizzata e l’automobile “istituzionale” che la scorta dice che è anche autorizzata.

L’orda dunque penetra nel centro storico, in uno dei centri storici medioevali più intatti e belli d’Italia, lo stesso in cui alcuni anni fa una delibera della giunta di destra allora in carica (cui non era estraneo perfino un membro di Forza Nuova) aveva vietato l’apertura di negozi “etnici” giudicati “incompatibili”. In quest’orda barbaramente esaltata invece a quanto pare la giunta oggi in carica (di cui nulla so e nulla voglio sapere) devo ritenere che non vede nulla di incompatibile. E la gente tutto attorno? Indignazione? Disgusto? Disapprovazione? Perplessità? Nulla del genere. Tutti anzi sembrano ingoiare la cacofonia con gran gusto; nessuno, davvero nessuno sembra vederci nulla di degenere, volgare. La gente si raduna ai margini delle strade, qualcuno fotografa la massa grigiastra.

Noi passiamo oltre, andiamo verso il treno che ci porterà altrove. E mi torna intanto in mente una piccola anticipazione di questa indecenza in cui mi ero imbattuto poche ore prima, un frammento di conversazione captato casualmente per strada: «Voi a Verona come li chiamate i terroni, terun?» domandava una donna a un’altra. Una misera razzista, avevo pensato. Ma forse un po’ razzista lo sono anch’io, devo ammetterlo, perché anche a me piacerebbe sbatter via a suon di ruspe un po’ di selvaggi, di sottosviluppati dall’Italia, e la loro puzza, la loro sporcizia. Ma i selvaggi veri, la sporcizia vera. Questi ad esempio, con i loro squallidi trabiccoli a due ruote. Solo che… sbatterli dove? Non disprezzo abbastanza nessun popolo per inondarlo di simili rifiuti. E allora pazienza, teniamoceli. E domandiamoci piuttosto: come è potuto accadere? Come abbiamo potuto produrli?

 

Mi si potrà obiettare che sì, è un episodio discutibile ma c’è di peggio, se non altro perché questi arrivano, passano e se ne vanno, e nel giro di un’ora della loro volgarità sguaiata non resterà nulla mentre esistono mille e mille forme di barbarie che creano sfregi ben più profondi e permanenti. È vero. Ma quest’orda puzzolente e grossolana che invade, con beneplacito istituzionale e nell’indifferenza di tutti, uno dei centri storici più belli d’Italia, mi fa paura più delle trivellazioni petrolifere nel mediterraneo, più di coloro che negano il riscaldamento globale, più di (quasi) tutto. Perché ciò che dà forma alla barbarie, che sfregia la realtà non sono i grandi episodi la cui meta saranno le pagine dei libri di storia che si scriveranno domani ma lo stillicidio quotidiano, minuto e tenacemente innumerevole di piccole storie ignobili che corrodono, come le classiche pustole di vaiolo, ciascuna un minuscolo (nello spazio o nel tempo) pezzetto del mondo. E tutte insieme il mondo intero. Questo episodio è una di esse.

Filippo Schillaci

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