articolo di KARL KRÄHMER e SILVIO CRISTIANO   

Recensione al libro «Housing for Degrowth» che parte da una giusta critica della predominante narrazione di un abitare che consuma suolo, sempre più carente di spazi pubblici, e comunque incapace di soddisfare la domanda di persone in balia di un mercato del lavoro selvaggio. (m.p.r.)

Il libro uscito qualche mese fa affronta «le principali sfide dell’abitare: alloggi inaccessibili, insostenibili e anti-sociali» sostenendo la ristrutturazione piuttosto che la demolizione e affrontando le controversie sull’urbanizzazione del dibattito interno al movimento della decrescita, sul decentramento e sul localismo. 
Sulla critica al capitalismo e al modello di sviluppo corrente si veda di Ilaria Boniburini Letture sulla decrescita. Sul diritto alla città si veda di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini, Edoardo Salzano, La città non è solo un affare. Su eddyburg altri articoli sono raggiungibili digitando nel “cerca” la parola “decrescita”. (m.p.r.)

Casa dolce casa. Di proprietà, in un quartiere per bene, col videocitofono e di giorno il portiere. Balcone, terrazzo, ma – osiamo! – un giardino col prato curato. Siepe, muretto e porta sicura per blindarsi al riparo da sguardi indiscreti a guardare qualcosa di discreto in tv. Posteggio comodo davanti al portone, box o posto auto per il suv di famiglia – chiaramente, s’intende, padre, madre e figli biondi.

Così appare l’abitare proposto dalle pubblicità di mutui e assicurazioni, serie televisive, romanzi e riviste patinate. Un sogno da realizzare? Non per gli autori e le autrici del libro Housing for Degrowth (Abitare per la decrescita, Routledge, 2018, a cura di Anitra Nelson e François Schneider). Questo modello viene denunciato come la narrazione dell’abitare in una società della crescita: una narrazione, cioè, utile solo a far andare avanti l’economia, ossia a giustificare affari e profitti (monetari, per pochi) ad ogni costo (sociale, economico e ambientale, da sobbarcarci tutti/e).

In Italia (ma non solo) questa narrazione è servita a industrializzare il Paese nel dopoguerra, col settore edilizio motore trainante del celebre boom economico e con la presunta solidità del mattone protagonista indiscussa dei risparmi di operai, imprenditori e travet. Ma i giovani d’oggi sono sempre più poveri e più anziani di quelli degli anni ‘60: con la sparizione dell’edilizia pubblica e la precarizzazione del lavoro, questa narrazione dell’abitare assume contorni diversi, e non sembra in fondo poi tanto auspicabile.

Non a livello individuale: un po’ perché anche chi sembra emanciparsi dall’affitto o da altre forme di abitare precario s’ingabbia nel meccanismo del debito e del lavoro ai tempi del Jobs Act (salvo lasciti di famiglia, deve cioè rimanere senza sosta e a qualsiasi condizione nel selvaggio mercato del lavoro pur di ripagare il mutuo senza farsi confiscare l’agognata casa) e un po’ perché sempre più spesso obbliga a passare buona parte della vita nel traffico di un abitacolo o su inesistenti mezzi pubblici per raggiungere e vivere nei luoghi né urbani né rurali delle nuove urbanizzazioni incontrollate – senza servizi e senza spazi pubblici così come senza i pregi di una vera campagna. Certo, a quel punto la casa può apparire un miraggio, il divano una culla, in cui anestetizzarsi dopo una giornata di stress e di lavoro. Ma a quale prezzo?

Se non è auspicabile a livello individuale, questa narrazione dell’abitare lo è tantomeno a livello collettivo: consuma suolo fertile a ritmi spaventosi coprendolo di cemento (spesso, tra l’altro, “tagliato”con i rifiuti cremati negli inceneritori), frammenta ecosistemi umani e non umani e contribuisce alla crisi ecologica generale (dunque anche sanitaria) col taglio di vegetazione, l’uso di risorse scarse e il rilascio di emissioni durante la costruzione, per il riscaldamento e attraverso gli oggetti acquisiti a riempire sempre più transitoriamente lo spazio. Il tutto senza risolvere minimamente le emergenze abitative delle città.

D’altra parte, infatti, la città storica viene smantellata, usata come oggetto di investimento finanziario ed estrazione di profitto, subisce gentrificazione, turistificazione, disneyficazione, da Lisbona a Venezia, da Palma a Barcellona.

Come si può di fronte a tutto questo costruire una narrazione alternativa? È questo il principale compito che il libro si pone, unendo i puntini di esperienze che già tentano di andare oltre il modello dominante del “produci, consuma, crepa”, inserendole nel dibattito sulla decrescita – l’idea che non solo in un pianeta limitato non si può crescere all’infinito, ma che, ridistribuendo ricchezza, lavoro e risorse si può vivere meglio tutti/e anche con meno: liberandosi dall’ossessione per la crescita e dalla corsa alla produzione, al possesso e al consumo di merci (e dallo sfruttamento, dalla frustrazione e dall’inquinamento che ciò comporta), è possibile infatti ristabilire una società più equa ed ecologicamente sostenibile.

Organizzato in sette parti e in venti capitoli firmati da un paio di dozzine di penne, il libro affronta questa sfida con una grande varietà di contributi su proposte nella maggior parte dei casi concretamente esistenti, seppur sperimentate per ora solo in piccola scala. Abitare in un’ottica ‘decrescente’ significa quindi affrontare le sfide chiave di un abitare che è oggi, come chiariscono da subito i curatori, “spesso inaccessibile, insostenibile e antisociale”. Si parla di forme di vita collettiva, in cui l’abitare diventa il primo passo di un modo diverso di relazionarsi con la società e con la sua economia e di ricostruire comunità, ripensando vari aspetti del quotidiano, ivi compresi il lavoro e gli spazi pubblici. Da Roma a Barcellona, da Christiania a Copenaghen fino a Bangalore in India, vengono presentate esperienze di resistenza urbana e non (Elisabeth S. Olsen, Marco Orefice e Giovanni Pietrangeli; Claudio Cattaneo; Natasha Verco; Mara Ferreri; Lina Hurlin; Anitra Nelson): dal diritto alla città al diritto al metabolismo (ossia i flussi, spesso suddivisi in maniera iniqua, di energia, materiali e rifiuti), dall’auto-ristrutturazione di case popolari alle occupazioni di stabili abbandonati che mettono insieme città e campagna, da forme di co-abitazione eco-collaborativa fino ad esperimenti di vita non monetaria e di proprietà collettiva.

Di fronte al suolo sempre meno disponibile e agli impatti sociali e ambientali di case grandi, un’altra proposta è rappresentata ad esempio da un possibile limite massimo di superficie abitativa pro capite socialmente accettabile (Harpa Stefandottir e Jin Xue). Hans Widmer, François Schneider e Ted Trainer propongono nei loro capitoli dei modelli di organizzazione territoriale del mondo a partire di piccoli quartieri e paesi compatti di circa 500 abitanti con “grandi opportunità di differenziazione personale e iniziative collettive di festa” che ci offrono delle visioni di un bel mondo altro. Mentre questa proposta è utopica a livello globale, alcuni quartieri funzionanti secondo questi principi in Svizzera esistono, testimoniando livelli interessanti di vitalità urbana

In alcuni capitoli (Jin Xue; Aaron Vantsintjan; Andreas Exner; Karl Krähmer; etc.) si snoda poi un dibattito sulla questione città vs. campagna. Sarà più sostenibile e democratico un sistema territoriale organizzato attorno a delle città dense e compatte o dovremmo piuttosto pensare a un futuro di ecovillaggi? Di sicuro non possiamo ignorare la necessità di porre un freno all’inesorabile penetrazione delle città nelle campagne – garantendo uno spazio vitale per la produzione del cibo e per la rigenerazione ecologica essenziale tanto per la biodiversità che per la nostra salute. Anche pensando a forme abitative e materiali edili più sostenibili e a noi più congeniali, non possiamo non considerare ciò che già abbiamo di costruito e ancora utilizzabile, dai tanti quartieri urbani sottopopolati fino agli innumerevoli insediamenti rurali o montani in via di spopolamento.

Forse potremmo concludere che la risposta alla domanda di qualche riga fa potrebbe semplicemente essere “dipende”: non è una scelta da fare in astratto e in generale, non può prescindere cioè dal singolo luogo o territorio e da chi lo vive interrogandosi sul suo futuro. Una scelta che forse può portare a città compatte tanto quanto a (eco)villaggi legati a una campagna che produce cibo localmente e in modo ecologico, però difficilmente potrà includere l’urbanizzazione diffusa organizzata attorno a villette, centri commerciali e svincoli autostradali che dal possesso individuale dell’automobile difficilmente potranno prescindere e la cui trasformazione ci pone una delle sfide maggiori.

La proposta politica dei curatori è infine quella del localismo aperto (‘Open Localism’) – vale a dire riconoscere un maggior rilievo e una maggiore autonomia ai singoli territori, ma senza rinchiudersi di fronte all’altro, senza rifuggire il dialogo ma anzi aprendosi al diverso (attenzione, dunque, stiamo parlando dell’esatto opposto del sovranismo).

Tutti questi esempi non sono forse nuovi se presi singolarmente. Il merito del libro è quello di metterli insieme e di dimostrare come ogni proposta da sola rischia di essere cooptata dalle forze del mercato. Senza separare la questione sociale da quella ecologica, il volume “Housing for Degrowth” (con le sue sette presentazioni italiane con università, associazioni e movimenti già avvenute a Trieste, VeneziaTorino e Roma) apre quello che consideriamo un esercizio pratico per un dibattito fondamentale: riconoscere in queste esperienze un denominatore comune per iniziare finalmente a costruire insieme una storia diversa, una storia nuova, a partire dalle vertenze esistenti nelle nostre città.

Materiale aggiuntivo (in inglese):
Il sito web ufficiale del libro
Il blog del tour di presentazione in treno/bici
Il sito web della curatrice Anitra Nelson

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