Il 22 aprile è stata la giornata mondiale dedicata alla terra, l’Earth Day, celebrata in 190 paesi del mondo da mezzo miliardo di persone. In realtà, fra inquinamento che peggiora, buco dell’ozono che si allarga e tassi di radioattività nell’aria e nell’oceano, motivi per celebrare ce ne sono sempre meno. Possiamo però utilizzare questa occasione per riflettere su cosa possiamo fare noi qui e ora. A partire dai rifiuti. Forse per capire un paese serve, più che un’analisi del PIL e dei consumi, una dei rifiuti… del RIL, il “rifiuto interno lordo”.

La nostra società è comunemente definita “dei consumi” perché proprio sui consumi si basa la sua economia: affinché il meccanismo funzioni è necessario moltiplicare i nostri bisogni spingendoci a una sorta di bulimica coazione all’acquisto di sempre nuovi oggetti che in breve si trasformano i rifiuti. E infatti si parla anche di società “dell’usa e getta”.

Forse più realisticamente potremmo chiamarla società del “getta”, visto che difficilmente gli oggetti, i vestiti o le auto vengono davvero usati o consumati, ma siamo invece incentivati a rottamarli e a sostituirli con nuovi e accattivanti modelli ben prima di una loro morte naturale. Ormai sembriamo esserci tutti trasformati in una sorta di tubo di scarico attraverso cui passano le sempre più limitate riserve del pianeta per convertirsi in scarti. E magari terminare il proprio ciclo di vita nei paesi poveri, come le balle di vestiti usati che si disperdono nelle miriadi di mercati africani dove trovano nuovi acquirenti. O, molto più colpevolmente, come rifiuti, viste le problematiche dello smaltimento a casa nostra.

A ben guardare, dal punto di vista etimologico il concetto di “società dei consumi” sembrerebbe più adatto a definire i paesi del terzo mondo, dove gli oggetti sono usati e consumati davvero e poi riciclati e riusati. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, enunciò il chimico francese Antoine-Laurent de Lavoisier. E gli africani traducono: “Tutto (o quasi) si può riciclare”. Loro lo fanno per sopravvivere. Come i bambini che un giorno in Mali hanno “rubato” i miei rifiuti per contendersi una scatoletta di tonno vuota o una bottiglia di plastica. Come le migliaia di persone che abitano intorno a immense e puzzolenti discariche dove vivono recuperando rifiuti.

Ma dalla miseria può nascere anche la bellezza. Viaggiando in Africa ho visto un ombrello tutto rammendato, così bello che non avrebbe sfigurato in un museo di arte povera. Ho visto bambini costruirsi incantevoli giocattoli con lattine e fil di ferro. Ho visto mercati traboccanti di creatività, dove gli oggetti hanno una seconda e anche una terza opportunità di rendersi utili: caffettiere e tegami rattoppati, copertoni trasformati in sandali, in contenitori o in bellissime cornici…

Forse anche dalla società del benessere e dei consumi possono nascere non solo rifiuti. Non è un caso che proprio a Genova (i genovesi si sa, sono gente parca), su proposta dell’architetto Renzo Piano, verrà presto aperto il primo Museo della Rumenta, cioè della spazzatura. Parlerà di riciclaggio, di riutilizzo e di arte nata da materiali di scarto. D’altra parte proprio il grande De André, che a Genova è nato, cantava: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…”.

Consiglio di lettura per imparare anche a viaggiare in modo più sostenibile: “Il piccolo libro verde del viaggio” di Federica Brunini, Morellini Editore. Ci sono duecentocinquanta consigli per spostarsi nel mondo a impatto zero o quasi.

Fonte: www.acomeavventura.com

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