Era il 1971 quando Nicholas Georgescu-Roegen pubblicava The Entropy Law and the Economic Process, il saggio che sarebbe stato la base per la teoria della decrescita. Il padre della bioeconomia affermava, allora, la convinzione che la scienza economica ignorasse una legge basilare della fisica, il secondo principio della termodinamica.
La decrescita è in qualche modo figlia di un clima, del ’68, di un particolare Zeitgeist se vogliamo, e nasce, come l’ecologia, in opposizione al “delirio produttivista”. Proprio negli stessi anni, la Ong Club di Roma commissionava il noto Rapporto Meadows (pubblicato nel 1972), uno studio sull’incidenza della crescita sull’ecosistema in relazione alle risorse limitate del pianeta; nel 1970 Baudrillard dava alle stampe La Société de consommation.
Nonostante oggi esista un’urgenza avvertita in tutto l’Occidente postfordista, stretto in una crisi che con la globalizzazione abita ormai ogni dove, è principalmente in Francia e in Italia (con Maurizio Pallante) che si muovono movimenti ispirati alle idee di Georgescu-Roegen e al maggior teorico di seconda generazione, Serge Latouche. Una corrente influente ma poco organizzata, scriveva “Le Monde Diplomatique” nel 2009, seppur ben veicolata da Latouche, il quale dopo numerosi saggi rilancia ora con Come si esce dalla società dei consumi (Bollati Boringhieri, 2011). Compendio degli interventi precedenti, il libro chiarisce ancora una volta, anche ai diffidenti “ambienti ecologici o della sinistra radicale”, per nulla d’accordo sulla problematizzazione del concetto di crescita tout court, il senso di una proposta plurale che non è ricetta né imperativo ma “sguardo altro”, “matrice di alternative” delineata sulla scorta di Illich e Castoridias. Si tratta della trasformazione del sistema economico globale, una via di fuga in 10 punti che passa per le “8 R”, la riappropriazione del denaro e il ridimensionamento delle banche, attraverso la premessa, però, di una decolonizzazione dell’immaginario, propedeutica al reincanto del mondo; una rieducazione. Decrescita non è sinonimo di pauperismo né di sottrazione, significa economia solidale e frugalità in un ridimensionamento conviviale, sottintende ambientalismo e riciclo, scrive Latouche.
È rifiuto del bioconsumismo in nome di una nuova etica, è guerra culturale alla globalizzazione, dunque progetto politico di opposizione all’idea di sviluppo, anche quello cosiddetto “sostenibile”, di per sé un ossimoro. Premoderna, regressiva, progressista o rivoluzionaria? Controversa.
Ad oggi numerosi “movimenti” convergono su uno o più punti decrescisti, componendo una costellazione di micro-realtà che interpreta le varie istanze in gioco oscillando tra radicalità e morigeratezza, trovando univocità solo nella consapevolezza e nella spinta dal basso. Tanto complesso è il biocapitalismo quanto labirintica la forza che gli si oppone. Di certo la fase analitica è finita, siamo ormai in una condizione propositiva proiettata all’attuazione. E Latouche è ben al di là della conciliante “crescita verde”, a suo dire “diventata, a destra come a sinistra, la panacea, il cuore di un New Deal ecologico, che permette un greenwashing e il rilancio di un capitalismo rifondato, etico e responsabile, drogato con gli ormoni dell’ecobusiness.”
In tale scenario, come si pone l’arte? È quasi inevitabile, per certi versi, rintracciare un precedente del movimento di decrescita nell’Arts and Crafts di Morris, inebriato di socialismo utopico all’epoca della prima crisi culturale di fronte al progresso. Il panorama è piuttosto frammentato, anche se tutto è correlato in un grande “ecosistema” in cui ambientalismo, attenzione al territorio e pratiche di resistenza umana si intrecciano. Mutate le forme del potere è cambiato l’approccio alle problematiche correlate. Lo slittamento dalla critica all’ “esodo” registrato negli ultimi decenni è un dato di fatto, e mentre Latouche propone l’abbandono di un paradigma e richiama “sapere ed etica, resistenza e dissidenza” si avvicina alle attività di un certo interstizio. Ovvero, a quell’area intermedia tra pratiche artistiche e attivismo in cui è marcata la centralità del rapporto individuale/collettivo per una relazionalità, in parte ereditata dai meccanismi emersi negli anni ’90, che va ben oltre se stessa, non si accontenta di “innescare” condivisione e presuppone contenuti di sostanza. Emblematico è il Barter Book di Michelangelo Consani, volume a corredo della personale Dynamo (EX3 di Firenze, 2010). L’opera e così i testi dell’artista, di Latouche, Antognoli, Stamenkovic, Giusti s’innestano laddove energia, sostenibilità, bene comune, partecipazione e criticità dell’oggi palesano la distanza incolmabile tra libertà e potere, scelta e costrizione. E riflettono una linea lucida vibrante da Pellizza da Volpedo a Illich, tesa tra ufficialità e marginalità, dimenticanze e spettacolarizzazioni, rapporti di dominazione e subordinazione che includono la conflittualità tra artigianato e industria palesata in primis dall’Arts and Crafts.
Da anni si susseguono progetti d’ogni tipo (e spesso vuoti), risultato di sovrapposizioni concettuali concentrate su emergenze sociali, territoriali, ambientali, dall’ecosofia alla Deep Ecology, ma solo di recente si sta palesando la necessità di una riflessione sull’idea di crescita, prima scontata. Seppure difformi per impianto e finalità, una struttura anomala come il PAV o la Cittadellarte di Pistoletto, che auspica la “decrescita regolata”, e NABA (con i suoi Mercoledì) sono gli esempi più visibili dell’emersione di un quesito nuovo elaborato soprattutto da associazioni, eventi e soggetti meno appariscenti – NWart, gruppo Arte Entropia Zero (L’arte della decrescita in Valpolicella 2009), Bideceinge (Roma, 2009), De-Art. L’arte per la decrescita (Istituto Italiano di Cultura di Ljubljana, 2010), Transeuropa Festival 2010, ecc. D’altra parte, solo nel 2002 abbiamo il convegno Défaire le dévéloppement, réfaire le monde all’Unesco e solo nel 2008 il Manifesto. Il peggioramento delle condizioni economiche, l’acuirsi delle tensioni sociali, il fallimento del vertice di Copenaghen, nonché la catena di recenti catastrofi naturali e artificiali, come pure le rivoluzioni in atto tra Maghreb e Medio Oriente stanno rinvigorendo la vecchia ipotesi decrescista nell’impasse di un Occidente in crisi e un’Europa muta. Da un lato cresce l’iniziativa dal basso, spinte dal desiderio di riappropriazione dello spazio pubblico nascono esperienze di co-housing e neo-ruralismo, diventano imprescindibili l’utilizzo di energie rinnovabili e la lotta agli sprechi, ma soprattutto sembra si stia muovendo qualcosa a livello istituzionale, con cautela… Di recente, rispondendo a Luciano Marucci su “Juliet” n.147, Piero Gilardi registrava la presenza di un numero consistente di artisti molto attivi sui temi citati, a fronte di una certa indifferenza delle istituzioni, che stentano a elaborare i nuovi soggetti e non sono disposte a rischiare. Il sistema chiuso museo-galleria-collezionismo, lungi dal voler semplificare l’evidente complessità di un tema da rimandare a futura occasione, altro non è che riflesso di quel paradigma economico espanso cui questa old wave si oppone. Se le questioni del riscaldamento globale e del riciclo sono state affrontate e digerite (si potrebbe stilare un elenco infinito di mostre), il dibattito sulla decrescita è solo agli inizi. Certo, Green Platform 2009 alla Strozzina è stato a suo tempo un contenitore panoramico e sensibile, ma generico. Spiccava, allora, accanto a Futurefarmers, Greenfort, gli Orta, Superflex, l’approccio di Marjetica Potrc che partendo dall’osservazione della territorialità di Acre parlava di localismo e autorganizzazione riferendosi direttamente alla decrescita, coniugando relazionalità, concretezza e sinergia interdisciplinare. Così Favini proponeva una conversazione con Gille Clément, il Giardiniere de Il terzo paesaggio, simpatizzante degli obiettori di crescita e in polemica con Sarkozy tanto da abbandonare ogni incarico istituzionale. Poi Caretto & Spagna, Dantini, Håkansson, Holten, Uzunovski, Alterazioni Video, Balkin… tutti a vario titolo in sintonia con un’onda che risponde però, sia chiaro, più all’eco dello spirito del tempo presente che non alla volontà di dare forma a una teoria.
Incisiva, almeno sulla carta, sembra On the Metaphor of Growth, iniziativa condivisa da Kunstverein Hannover, Frankfurt Kunstverein e Kunsthaus Baselland, dedicata non alla riflessione sul senso dello “sviluppo sostenibile”, ma all’indagine centrata sul concetto di “crescita”, ora ritenuto d’attualità. L’evento, in corso in questi mesi, annovera neofiti e veterani – Blazy, Buggenhaut, Chodzinski, Fleischmann, Gebert, Greenfort, Janke, Keller, Peterman, Reynolds, Rottenberg, Rudelius, Steiner & Lenzlinger, Superflex, Sussman e Zybach – e potrebbe costituire un precedente importante.

(tratto da “Arte e Critica” n.67 2011)

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