Attività minerarie, espansione urbana, mega-infrastrutture, industria del legname: sono queste le maggiori cause globali di deforestazione. Ce n’è una, però, che le sovrasta tutte, e di molto: l’agricoltura. Secondo uno studio finanziato dai governi britannico e norvegese, infatti, senza il costante bisogno di nuove coltivazioni ben 8 alberi abbattuti su dieci potrebbero rimanere al loro posto. Cifre da record, legate in particolare all’agricoltura industriale. Che, soprattutto in Sud America, vede enormi coltivazioni di soia o cereali in mano a poche multinazionali. Una concentrazione di potere preoccupante, avverte il Wwf, che porta un centinaio di imprese a gestire da sole la metà dei beni provenienti dalle foreste di tutto il pianeta. Un fenomeno dagli effetti nefasti sia a livello ambientale che sociale.

Basti pensare al Paraguay, dove solamente per fare spazio alle coltivazioni di soia geneticamente modificata (destinata a diventare foraggio animale per il mercato europeo) ogni anno 90mila famiglie vengono costrette a lasciare le loro terre di origine. Piantagioni per la produzione di carta e di olio di palma in Indonesia; agricoltura di sussistenza e consumo di legna da ardere in Africa; allevamenti e colture di ogm in America Latina: sono le attività che stanno uccidendo le foreste tropicali, ultimi polmoni verdi del pianeta. A lanciare l’allarme non è una ong, ma un’equipe di studiosi supportati dai governi di Londra e Oslo. Che, con lo studio Drivers of Deforestation and Forest Degradation, ribadiscono l’urgenza di far fronte agli attuali cambiamenti globali. Il rapporto, frutto della collaborazione tra la canadese Lexeme Consulting e l’Università di Wageningen, in Olanda, si basa su articoli scientifici, dati governativi e analisi di organizzazioni come la Banca Mondiale e le Nazioni Unite. Obiettivo? Comprendere le cause dirette e indirette della deforestazione, e informare i responsabili politici coinvolti nello sviluppo del meccanismo Redd+, programma internazionale per la riduzione delle emissioni di gas serra derivanti dal degrado forestale.

Nello studio, firmato da Gabrielle Kissinger, Martin Herold e Veronique De Sy, si sottolinea la necessità di agire su fattori come i prezzi delle materie prime, la crescita demografica e dei consumi, la corruzione e il malgoverno. E sulle politiche agricole: proprio l’agricoltura, infatti, è il principale “driver” diretto del degrado forestale, capace di provocare da sola l’80% dei disboscamenti globali. Fra i principali driver critici indiretti, invece, i ricercatori ne evidenziano due: la crescita economica basata sulle esportazioni di materie prime e l’aumento della domanda di legname e prodotti agricoli in un’economia globalizzata.

Si sta andando verso una situazione dai contorni potenzialmente catastrofici, avverte lo studio, ma le aree verdi del pianeta non sono ancora spacciate. Se si iniziassero ad accantonare le pratiche del cosiddetto business as usual, infatti, si avrebbero benefici di carattere non solo ambientale, ma anche politico ed economico: una corretta gestione delle foreste, ad esempio, potrebbe portare a una riduzione della corruzione e quindi delle perdite finanziarie in Paesi che, presto, si potrebbero trovare in ginocchio nonostante la ricchezza dei loro territori. Ecco perché, scrivono gli esperti, si “dovrebbe dare priorità al miglioramento della governance e alla trasparenza”, e fare della lotta alle pratiche illegali una “attività fondamentale”.

Legalità e tutela delle foreste come volano per uno sviluppo delle aree più arretrate? Per gli autori del rapporto è la chiave di volta: “Ci sono promettenti strategie per dissociare la crescita economica dalla deforestazione”, scrivono gli scienziati. L’importante è concentrarsi sia sulle politiche nazionali che sulla cooperazione internazionale: “Efficaci pianificazioni territoriali, politiche e incentivi – sottolineano – consentono di ridirigere attività ad alto costo senza sacrificare lo sviluppo economico”. Per quanto importanti saranno le scelte a livello locale, ammette però lo studio, la pressione internazionale aumenterà. E così la necessità di far fronte a minacce globali come il climate change. Al di là dello sviluppo economico, ricorda infatti l’Onu, abbiamo un solo pianeta su cui vivere, e “il mantenimento degli ecosistemi forestali può contribuire ad aumentare la resilienza ai cambiamenti climatici”.

di Andrea Bertaglio

Fonte: ilfattoquotidiano.it

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