Tiziano Terzani interrogò un giorno un anziano eremita che viveva accanto a lui, sulle pendici dell’Himalaya, circa il significato di un suo sogno. Il vecchio gli rispose così: “Il contenuto dei sogni, disse, era roba da psicanalisti che considerano loro compito riadattare i pazienti alla società invece che cambiare la società per adattarla ai bisogni dell’umanità in generale”.[i]

Siamo cosi sicuri che il vecchio saggio non avesse ragione?

Quando ci arriva un paziente con “l’esaurimento nervoso”, con un Disturbo di Panico o una Depressione Maggiore prevalentemente legati a fattori socio-culturali inerenti la cosiddetta post-modernità (ma potremmo dire ad un sistema basato esclusivamente sulla crescita economica), facciamo davvero del bene ad aiutare queste persone attraverso la potente farmacoterapia o la più fine psicoterapia? Gente che magari lavora dodici ore al giorno in fabbrica o in ufficio in condizioni disumane (materiali o psico-sociali) mantenendo a stento una famiglia, giovani senza un posto di lavoro che non riescono a intravedere un barlume di futuro, ma anche manager o imprenditori più che benestanti che lavorano dodici ore al giorno sotto estremo stress, sempre di corsa, senza il tempo da dedicare alle persone che amano (se si concedono questo “lusso”) e a se stessi, se non consumandosi nell’acquisto di una miriade di merci inutili.

Ormai siamo sempre tutti di corsa, stressati. Invece di cooperare, lottiamo alacremente gli uni contro gli altri per conseguire maggiore potere, successo e denaro (a tutti costi), per essere i migliori. L’affettività è spesso un impiccio per la nostra efficienza. Il produttivismo economico e le sue fredde logiche (razionalità, materialismo, controllo, etc.) sono così state internalizzate (quasi come figure genitoriali), sono ormai divenute stabilmente parte della nostra psiche e non ci lasciano scampo, non ci lasciano tirare il fiato: non dobbiamo essere, realizzare noi stessi, esprimerci autenticamente, ma fare e fare sempre di più, per avere sempre di più, senza alcun limite! Paradossalmente, abbiamo sempre di più, ma siamo sempre più soli, tristi e pessimisti.

Considerare patologico chi non si adatta agli stili di vita di una società malsana, metterlo a tacere ed aiutarlo a riadattarsi all’unica realtà che noi riusciamo a concepire è davvero complessivamente salutare per l’umanità?

La psicodinamica ci insegna che il sintomo psicologico, la crisi, è sovente un campanello d’allarme che implica la necessità di un cambiamento (lo è a volte per il singolo, ma lo può essere anche per la collettività). Ignorare questo campanello d’allarme e spegnerlo non rischia forse di impedire alla nostra società di maturare e di andare oltre questo sistema folle in cui non siamo più noi ad usare l’economia per il nostro benessere, ma accade il contrario?  Se evitiamo la formazione degli anticorpi contro questa “megamacchina” non rischieremo di trovarci fra vent’anni con una società “inguaribile” che non potrà essere stabilizzata se non ad un altissimo prezzo, portando così probabilmente ad una sua globale involuzione piuttosto che ad una evoluzione?

La dinamica assomiglia un poco a quella dei moderni inceneritori. Si risolve il problema dei rifiuti bruciandoli. Si spegne il campanello, invece di comprendere la pazzia di una società che sotto la cieca spinta dell’economia dilapida preziose materie prime (non infinite), inerme dinanzi alla ormai evidente necessità di cambiare il proprio modello di sviluppo e risolvere così il problema alla radice (tramite la riduzione della produzione dei rifiuti, il riutilizzo e il riciclaggio/compostaggio).

Nell’Unione Sovietica numerosi furono i dissidenti dichiarati malati di mente e per questo internati in ospedali psichiatrici speciali (in sostanza prigioni), in base a perizie di equipe psichiatriche influenzate dall’ideologia comunista e dal Kgb. Chi non era “normale”, chi non si adattava al funzionamento del sistema era facilmente etichettato come altro, come malato e neutralizzato. Gli psichiatri, in questo frangente, rappresentavano il braccio armato del potere.

Queste pratiche ci risuonano come molto lontane, “robe di altri tempi”. Ma noi, moderni psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, possiamo davvero dormire tranquilli? Cosa penseranno fra 50 anni i nostri figli della nostra attività?

di Jean-Louis Aillon (Mdf Torino)

PS: Sarebbe inumano negare un’appropriata terapia ad una persona che soffre, ma se curiamo il disagio del singolo con una mano possiamo però lottare con l’altra per far emergere la consapevolezza del problema nella collettività. Non è forse un dovere di tutti i medici ed operatori della salute mentale? Si può promuovere una vera prevenzione primaria e promozione della salute mentale a 360 gradi senza mettere in discussione l’odierno sistema socio-economico?

Riferimenti bibliografici:

Amnesty International, Unione Sovietica. Detenzione per motivi d’opinione, 1980
M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004
M. Benasayag, A. Del Rey, La chasse aux enfants: L’effet miroir de l’expulsion des sans-papiers, La Découverte, 2008.
E. Fromm. Avere o Essere? Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1977
E. Fromm, I cosiddeti sani: la patologia della normalità, Arnoldo Mondadori Editore, 1996.
S. Latouche, La Megamacchina, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
S. Latouche, La scommessa della decrescita, Serie bianca Feltrinelli, Milano 2007
S. De Luca, Repressione psichiatrica del dissenso: il caso sovietico, Rivista online di storia e informazione N. 19 – Dicembre 2006. [Internet] disponibile a questo indirizzo: http://www.instoria.it/home/psichiatria_dissenso.htm
Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi, 2004.

[i] Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi, 2004.

di Jean-Louis Aillon (Mdf Torino)

Fonte: AltraPsicologia.it

 

One thought on “Ma siamo poi tanto diversi dagli psichiatri sovietici?”

  1. Esiste l’anelito profondo all’unione e alla completezza nell’Anima di ognuno di noi; nel nostro vivere quotidiano incontriamo non poche difficoltà a calarci nel mondo, ad incontrarci e confrontarci con esso.
    Attriti, cadute, frustrazioni e ruvidezza sono parte del percorso.
    Jiddu Krishnamurti sosteneva: “Non è un segno di buona salute mentale essere bene adattati a una società malata.” Come persona e tarapeuta condivido a pieno la sua visione.
    Ci può essere, da una parte, lo spegnimento interiore, l’indifferenza, l’appiattimento, o il ricondurre tutto ad una visione materialista (denaro, successo, performance, sesso), e dall’altra, uno stato di sospensione, di attesa passiva, di struggimento per quell’impossibile ritorno romantico di/ad un paradiso ormai andato.
    Ma tenendo gli occhi ben aperti, possiamo vedere il ruolo in cui ci identifichiamo (e attraverso il quale ci interpretiamo), e scoprire che esiste la via di mezzo: c’è la possibilità di scegliere, di esplorare quelle vie altre, secondarie, laterali, strette, che non sono la grande corrente, e che ci si può far luce e riscaldare comunque, in un modo scelto e sentito. E realizzare che tutto ciò che è vivo e vero si trasforma, continuamente. Che l’individuo e la collettività sono intimamente connessi, e che nostro compito è anche quello di mantenere una visione ampia, che accolga e accetti tutte le sfumature, e che nel percorso terapeutico sia centrale l’aiuto a conoscere se stessi, rispettare le peculiarità e le differenze, non necessariamente come limiti, quanto piuttosto come risorse. Accompagnare le persone verso una vita autentica, per essere e realizzare la propria specifica natura. Dott.ssa Federica Pinna

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *