Tutti abbiamo accolto con sgomento e compassione la tragica notizia della morte di Luca “dimenticato” nella macchina dal padre. Tutti immedesimandoci, anche solo per un attimo, rammentando quanti fenomeni di rimozione ci sono capitati nella vita, per nostra fortuna meno gravi, e provando un grande dolore per la morte del bambino e un’automatica vicinanza al dramma dei genitori.

Tuttavia mi piacerebbe riflettere sul fatto che rimozioni di questo genere si vanno moltiplicando e che sono concentrate soprattutto nelle società “avanzate”. Nelle società della massima produttività, della competizione esasperata, della connessione perpetua, del lavoro a casa, di sera, di domenica, durante le ferie e così via.    Senza considerare che il confine tra l’attività di lavoro e l’attività di relazione funzionale al lavoro, tramite internet, la posta elettronica, i social network, twitter, gli smartphone ecc. ormai si è dissolto, annullato, non esiste più. Le nuove tecnologie hanno estremamente ridotto il tempo unitario della singola operazione (per es. una mail rispetto ad una lettera cartacea) ma ci hanno costretto alla moltiplicazione infinita delle operazioni svolte in un giorno di lavoro, giorno che per moltissimi di noi non termina più, da tempo, con il timbro del cartellino ma si propaga nelle 24 ore,  abbattendo i tempi del sé, quelli dedicati alla famiglia, alla salute fisica, alla relazione con gli altri, quella vera e non mediata dal web.

Non siamo più presenti, perché il presente è annientato dalle 10 cose che dobbiamo fare subito dopo, o domani. A volte succede che parlando con le persone,  pensiamo contemporaneamente alle cose che dovremmo fare e al modo di liquidarle in fretta senza apparire troppo scortesi. Quel che è più grave a volte succede con i figli, che diventano grandi senza che ce ne accorgiamo, a cui non dedichiamo tempo al momento opportuno ripromettendoci di dedicarne quando saremo meno occupati. Ma così perdiamo il presente, ci disabituiamo agli affetti veri, trascuriamo gli amici,  perdiamo la  capacità di ascolto, di cura, del dono.

Quando sento affermare dagli economisti che la nostra società può uscire dalla crisi aumentando la produttività mi prende lo sconforto. Un conto è proporsi di aumentare l’efficienza del sistema, ma la produttività del lavoro  è già oltre i limiti nella nostra società. La globalizzazione attuata dai “mercati” non solo sta livellando al ribasso le condizioni economiche dei lavoratori dei paesi ex industrializzati ma, quel che è peggio, sta riducendo la qualità della vita, gli spazi e i tempi di relazione, in sostanza il benessere  delle persone.

Abbiamo possibilità di sottrarci a questi meccanismi distruttivi? Non ne vedo molti sul piano politico, in un contesto in cui per decenni, anche le forze tradizionalmente sensibili alle esigenze dei lavoratori hanno inneggiato alla forza “equilibratrice” del mercato e delle liberalizzazioni, scambiando stoltamente la precarietà con la flessibilità e via dicendo.

Però qualcosa possiamo fare sul piano personale. Educandoci a staccare la spina, a dedicare una parte del nostro tempo a noi e alla famiglia, alla nostra salute, alla natura. Detto così sembra una ricetta da privilegiati, da chi può permetterselo, e forse lo è. Ma “ribellarsi è giusto” perché  rivendicare il benessere non è solo un diritto ma un dovere che dobbiamo a noi stessi e a chi vive con noi.

Solo educando noi stessi potremmo aiutare i nostri figli a sottrarsi al dominio della connessione perpetua, della relazione virtuale, della competizione aggressiva, di uno stile di  vita ansiogeno e infelice.

Quel bambino morto in macchina non è solo vittima di una tragica rimozione ma la probabile conseguenza di una società disorientata  che ha bisogno di ripensare se stessa.

Giuseppe Castelnuovo

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