“Ma l’agricoltura biologica potrà mai produrre abbastanza per dar da mangiare a tutta la popolazione mondiale? Sarà competitiva con quella convenzionale? Esistono studi quantitativi?” Sono domande che puntualmente mi sento fare ogni volta che pongo la questione della sostenibilità agroalimentare fuori dagli ambienti in cui la produzione biologica è ormai di casa. Durante la realizzazione di Un pianeta a tavola mi trovai di fronte a due studi che rispondevano, in tutto o in parte, a queste domande. Il primo di essi, quello che di fatto citai poi nel libro, fu realizzato dall’ONU e presentato nel 2010 dal relatore speciale per il diritto al cibo Oliver de Schutter. Uno studio di ampio respiro che rende conto di numerose esperienze di agroecologia condotte con successo in varie parti del mondo. Il secondo, che poi non utilizzai, è uno studio dell’ASSAM (Agenzia Servizi Settore Agroalimentare delle Marche), risale a 15 anni fa ed è relativo alla situazione della produzione biologica in quella regione. Già le caratteristiche dei due studi che ho appena riassunto rendono ovvio perché, dal nostro punto di vista, fosse più pertinente citare il primo piuttosto che il secondo ma la ragione che mi indusse a non fare uso di quest’ultimo fu anche un’altra, ed è qui interessante discutere di essa. Prima però rivolgiamoci un momento a Christian Grassi, perito agrario, ex ispettore dell’AIAB e oggi agricoltore biologico, che in Un pianeta a tavola tratta questo argomento. Quando andai a trovarlo nella sua azienda nei dintorni di Ravenna discutemmo di varie cose e Christian tornò a un certo punto, su una mia domanda, a uno dei temi che aveva trattato nei suoi contributi teorici: le due agricolture biologiche.

«Mi parlavi anche di iniziative che partono bene ma poi finiscono col riprodurre i meccanismi del mercato convenzionale» gli chiesi a un certo punto. «Sì, è un po’ come il discorso del fotovoltaico.» mi rispose Christian «Un’idea buona che per qualche motivo viene digerita e riadattata a quello che è il mercato. A volte accade di non accorgersi di finire col ripercorrere un cammino che ti riporta all’economia di scala, a cercare il prezzo più basso in assoluto trascurando il discorso di chi ti fornisce, di chi stai sostenendo. Una pesca non è una pesca: dipende da chi te l’ha data. Tu stai permettendo di sopravvivere a una piccola azienda a conduzione contadina che in qualche modo sta preservando quel piccolo pezzetto di terra, ma che magari costa un po’ di più. Oppure stai preservando un’azienda agricola biologica su modello industriale che comunque è qualcosa di monoculturale con un ampio impiego di mezzi tecnici comprati sul mercato. Cioè comprare una pesca da un pescheto che magari ha una resa di 100 qli/ha e comprare la stessa pesca da un pescheto bio che ha una resa di 250 qli/ha è diverso perché uno dei due sicuramente non ha utilizzato nessun apporto di fertilizzanti per quanto possano esser bio. Un’azienda che fa bio ma, come ho scritto nel capitolo su questo argomento, approccia in maniera convenzionale non utilizzando l’azoto chimico ma surrogando con un azoto biologico, è comunque un modello che si rifà a Liebig. Come faccio a ottenere 250 qli di pesche comunque in bio? Sostituisco. Fai un’agricoltura bio di sostituzione. Sostituisco il trattamento chimico con il trattamento bioconsentito, la concimazione chimica con la concimazione bio, però è una visione di sostituzione non di metodo; non stai trovando il modo di equilibrare la tua azienda utilizzando quello che hai a disposizione e producendo quella che è probabilmente la normale produzione di una pianta lasciata libera di fare quello che i suoi geni le dicono che dovrebbe fare in condizioni normali, che delle volte va bene mentre delle volte va male ma lo accetti. Poi vale quel discorso dei piccoli passi: delle due è sempre meglio un’azienda biologica industriale rispetto a un’azienda chimica.»

Teniamo ora in mente questi concetti e parliamo dello studio dell’ASSAM. Prima di arrivare al punto cruciale vediamo innanzi tutto quali caratteristiche dell’agricoltura bio marchigiana vengono fuori da esso. Innanzi tutto gli agricoltori biologici sono mediamente più giovani di quelli convenzionali e più frequentemente provengono da fuori del mondo agricolo, sono insomma “nuove leve” dell’agricoltura. Quanto all’organizzazione delle aree coltivabili, si ha un maggior rapporto fra superficie agricola totale e superficie agricola utilizzata rispetto alle aziende convenzionali, ovvero una maggior quantità di territorio occupata da aree boschive o a siepi o comunque naturali. Gli agricoltori biologici marchigiani riconoscono dunque a queste aree naturalizzate il ben noto valore in termini di miglioramenti microclimatici, aumento della biodiversità ecc.

Uno dei luoghi comuni più diffusi è che l’agricoltura biologica sia meno efficiente di quella convenzionale e richieda pertanto una maggior quantità di lavoro manuale per ettaro per supplire ai minori input esterni e in particolare al minore impiego di prodotti chimici, tanto che ciò rappresenta spesso, si legge nello studio, «un deterrente per molti imprenditori agricoli al passaggio all’agricoltura biologica». Ebbene, nelle Marche è esattamente il contrario: sono le aziende convenzionali quelle che richiedono più lavoro (56 ore in più a ettaro all’anno). Questo aspetto risulta particolarmente accentuato per le aziende viticole e da frutta.

Sempre in tema di pregiudizi, si parla anche di quello secondo cui «l’agricoltura biologica ‘paghi’ il raggiungimento di obiettivi positivi in termini ambientali e salutistici con risultati economici inferiori per gli agricoltori. In altri termini si ritiene che «il costo del risanamento ambientale sia interamente sostenuto dagli agricoltori biologici tramite un abbassamento dei redditi.» Ciò non trova riscontro nella realtà perché, mentre da una parte le aziende biologiche sono caratterizzate da costi minori a causa di un ridotto impiego di input, dall’altra i maggiori ricavi delle aziende convenzionali dovuti alle presunte maggiori rese non sono così certi poiché le rese non sempre sono effettivamente maggiori dipendendo esse da una molteplicità di fattori. «Inoltre» continua lo studio «molti agricoltori biologici sostengono che i cali maggiori di rese fisiche vengono sostenuti nei primi anni della conversione al regime biologico; successivamente le rese possono anche tornare ai livelli originari.»

Quanto ai benefici economici, lo studio conclude che in generale «le aziende biologiche sono almeno altrettanto redditizie di quelle convenzionali». Ma adesso veniamo al punto critico, ovvero cosa, nel contesto analizzato dallo studio, consente questa “competitività”. «Le produzioni che più premiano le aziende biologiche» si legge «sono quelle in cui il fattore qualità può essere meglio sfruttato a fini economici. Un vino o un olio di oliva di produzione biologica possono più facilmente rendere “visibile” il maggiore contenuto qualitativo del prodotto, anche attraverso la possibilità di scelta di opportuni canali di vendita, ottenendo prezzi particolarmente vantaggiosi che compensano ampiamente le inevitabili maggiori difficoltà della gestione economica dell’azienda biologica. (…) Il vero fattore vincente delle aziende biologiche è evidentemente costituito dal fatto che i loro prodotti vengono sapientemente collocati sul mercato, puntando sulla differenziazione e sulla qualità, e quindi riuscendo a spuntare prezzi di vendita decisamente superiori rispetto ai prodotti convenzionali.» Infatti «se l’agricoltore biologico riesce ad utilizzare canali di vendita specifici per produzioni biologiche, allora i premi di prezzo rispetto ai prodotti convenzionali possono divenire consistenti» potendo variare «fra il 10-15% per i prodotti cerealicoli fino al 400-500% per specifici prodotti ortofrutticoli. Tali valori sono in grado di compensare abbondantemente anche le eventuali riduzioni di rese fisiche, e di produrre quindi diretti benefici in termini di Produzione Lorda Vendibile.»

In questo ragionamento vediamo una storpiatura analoga a quella descritta da Christian a proposito del metodo produttivo (a proposito, lo studio non fa alcuna distinzione fra biologico contadino e industriale, dunque sembra che gli autori non siano consapevoli di questa differenza). Così come un certo tipo di aziende biologiche mantiene l’impostazione convenzionale nella gestione delle colture limitandosi a sostituire certi prodotti con altri, allo stesso modo nel commercializzare i prodotti biologici ci si rifà a una concezione convenzionale del mercato in cui ha la meglio chi riesce a massimizzare il proprio guadagno riuscendo a vendere la propria merce a prezzi più alti, non importa quanto più alti anzi, più sono alti meglio è, vuol dire che l’azienda funziona, che è “competitiva”. Si produce dunque in maniera “diversa” (se diversa è) ma in un contesto in cui il rapporto fra produttore e “consumatore” rimane inalterato: vuoi la qualità? Pagala! Non puoi permettertelo? Fa niente, eccoti la tua zucchina inzuppata di pesticidi. È quella che fa per te.

Non è esattamente questo che noi intendiamo quando parliamo di cibo biologico; non è esattamente questo il mondo che vogliamo. Esperienze come quella dell’azienda Mater Naturae di Christian Grassi o della cooperativa Aequos di Saronno che Un pianeta a tavola raccoglie come casi esemplari mostrano che una diversa idea di mercato è concretamente possibile, non come utopia ma come realizzazione fattuale nel presente. È lungo queste strade che noi ci siamo incamminati.

 Filippo Schillaci

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