Canosio, 10 gennaio 2015

 

Caro Totò,

la tua lettera da Taranto mi ha fatto tornare alla mente un episodio a cui ho assistito una mattina al bar della Stazione di Firenze. Al bancone di fòrmica accanto a quello dove io ero seduta, un gruppo di ragazzi americani addentava dei panini rotondi gommosi, farciti con una polpetta di carne tritata ricoperta da una densa crema arancione che fuoriusciva e si rapprendeva ai bordi. Accanto al piatto usa e getta, ognuno aveva una vaschetta di cartoncino da cui spuntavano bastoncini di patate fritte. Al gruppo dei giovani americani si è avvicinata una ragazza della loro età, vestita poveramente, un bel viso senza trucco, lo sguardo umile e rassegnato che ho visto nelle contadine della generazione di mia nonna. Veniva, probabilmente, da un paese dell’Europa dell’est. A gesti ha chiesto qualche patatina fritta. I ragazzi dapprima hanno fatto finta di non capire, poi uno di loro l’ha guardata con fastidio, gliene ha data una manciata e le ha voltato le spalle riprendendo a parlare con i suoi amici. Non ho vissuto la scena come una riproposizione della piccola fiammiferaia di Andersen, ma con un senso di sgomento perché molto probabilmente la famiglia di quella ragazza nel suo paese aveva un pezzetto di terra in cui, tra le poche cose che coltivava, non potevano mancare le patate. Eppure a quelle che metteva in tavola sua madre, coltivate senza prodotti chimici, di forma irregolare e con un sapore proprio, che non doveva comprare, la ragazza aveva preferito quelle coltivate e conservate chissà come, tagliate in modo da non sembrare più patate, senza la minima irregolarità, senza la minima imperfezione e senza sapore se non quello che ricevono dai preparati aromatici, dalla frittura e dalle salse: patate che si possono solo comprare, e lei non poteva comprare per mancanza di denaro. Con una tristezza indicibile ho immaginato cosa sarebbe stata costretta a fare per procurarselo.

Secondo le formule ripetute dai mass media, quella ragazza aveva fatto un «viaggio della speranza alla ricerca di una vita migliore». A me riesce difficile immaginare come possano essere considerate migliori le patate uniformemente insapori, coltivate con metodi industriali e cotte in un solo modo, rispetto a quelle coltivate secondo natura, con sapori differenti da tipo a tipo e da luogo a luogo, cotte in un’ampia varietà di modi. Per dirla in termini generali: come si possa ritenere migliore un sistema economico che mercifica e uniforma tutto rispetto a un sistema economico in cui persistono l’autoproduzione di beni per autoconsumo, le diversità biologiche e le differenze culturali. Questa valutazione, per me incomprensibile ma molto diffusa, può fondarsi solo sulla convinzione che il benessere cresca con l’estensione della mercificazione e che, di conseguenza, la ricchezza si misuri col denaro, perché senza denaro le merci non si possono comprare. In realtà, l’identificazione della crescita del benessere con l’estensione della mercificazione e della ricchezza col denaro, risponde solo agli interessi di coloro che producono per vendere. Sono loro ad aver bisogno che lo creda un numero sempre maggiore di persone, perché se non crescesse il numero delle persone che ritengono di migliorare la propria vita smettendo di autoprodurre beni e comprando tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere – le patatine fritte al posto delle patate coltivate nell’orto di casa – non potrebbero vendere le quantità crescenti di merci che producono. Ma per poter comprare le merci occorre avere un reddito monetario e l’unico modo di ottenerlo è riceverlo sotto forma di salario in cambio di un posto di lavoro nella produzione di merci. Sono stati coloro che producono per vendere a far credere, dalla seconda metà del secolo scorso, ai contadini delle nostre regioni meridionali di essere poveri perché, coltivando per nutrirsi e limitandosi a vendere le eccedenze, avevano pochi soldi. Sono stati loro a convincerli che la costruzione di fabbriche nel territorio in cui vivevano e l’assunzione come operai fosse un progresso perché il reddito monetario che avrebbero ricevuto alla fine di ogni mese li avrebbe fatti uscire dalla povertà. Sono stati loro che dall’ultimo decennio del secolo scorso hanno martellato con lo stesso messaggio i popoli dei paesi non industrializzati, dove l’economia di sussistenza conserva un ruolo non marginale, convincendoli a pagare costi altissimi, a sostenere sofferenze indicibili e a rischiare la vita per trasferirsi nei paesi industrializzati a inseguire il miraggio di arricchirsi scambiando la loro capacità di lavoro con un reddito monetario appena sufficiente per acquistare ciò che non avevano mai avuto bisogno di acquistare per vivere. Non voglio dire che la mercificazione comporti soltanto problemi. Offre anche vantaggi, perché alcuni beni che migliorano notevolmente la qualità della vita non si possono autoprodurre. Si possono solo comprare. I macchinari per la diagnostica medica. Il computer da cui ti sto scrivendo. Ma quando il passaggio dall’autoproduzione di un bene all’acquisto dello stesso tipo di bene sotto forma di merce comporta un aumento dei costi, un peggioramento della qualità, un danno ambientale, una perdita di competenze e una maggiore dipendenza dal mercato, si può considerare un progresso? Lo so che la domanda è retorica, ma questi processi sono avvenuti e avvengono: sono inevitabili nei sistemi economici finalizzati alla crescita della produzione di merci. Molte volte sono stati imposti con la forza. Pensa alla legge sulle enclosures nell’Inghilterra del settecento, o alle deportazioni dei contadini cinesi in città che nell’arco di una decina di anni hanno superato i dieci milioni di abitanti. Nelle democrazie si è preferito convincere le persone, usando come indicatore di benessere il valore monetario delle merci scambiate nel corso di un anno e un enorme apparato di persuasione di massa che, da una parte esaltava i vantaggi e nascondeva i problemi della mercificazione, dall’altro enfatizzava i limiti delle economie di sussistenza e ne nascondeva i vantaggi. Basta vedere alcuni filmati girati tra la fine degli anni cinquanta e gli inizi degli anni sessanta per conto delle industrie che stavano per distruggere i paesaggi e le economie locali di alcune aree del sud Italia individuate come localizzazioni ottimali per i loro impianti per ragioni obbiettive, avrebbe scritto mezzo secolo dopo nella sua autobiografia riferendosi all’Italsider di Taranto, l’allora responsabile del Partito Comunista Italiano per le politiche di sviluppo del mezzogiorno. «Non per il nostro profitto personale […] ma con la convinzione che la Sicilia e la vostra provincia possano andare verso un maggiore benessere, che ci possa essere lavoro per tutti», aveva detto alla folla accorsa a Galliano Castelferrato il dirigente democristiano di una delle più importanti aziende statali. Basta vedere le pubblicità di Carosello per capire la pervasività del condizionamento di massa svolto in quegli anni. E per venire ai nostri giorni, chi ha imposto alla ragazza est-europea di ritenere che le patatine fritte del fast food fossero a tal punto più desiderabili delle patate coltivate nell’orto della sua famiglia da meritare uno sradicamento dalla propria terra e una miseria al limite della sopravvivenza, probabilmente maggiore di quella in cui viveva?

Nei paesi di più antica industrializzazione i fumi di quella ubriacatura collettiva si stanno diradando e gruppi sempre più numerosi di persone stanno riscoprendo non solo l’importanza, ma anche la bellezza del saper fare e dell’autoproduzione per autoconsumo, non come attività alternative, ma integrative della produzione di merci. Proprio oggi un ex-deputato del Canton Ticino mi ha inviato la foto di due sacchi di granturco che ha coltivato e portato a macinare a pietra in un antico mulino. Non sono tentativi velleitari di ritorno al passato, ma scelte che si inseriscono in un progetto di futuro, dettate dalla consapevolezza che la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci non ne ha, proprio perché concepisce il progresso come una successione di cesure nei confronti del passato. Crea problemi ambientali, economici e sociali sempre più gravi. Sacrifica la bellezza al profitto. Fa diminuire l’occupazione e aumenta le precarietà nei rapporti di lavoro. Esaspera la concorrenza internazionale e la spinge verso la guerra, per ora una guerra mondiale frammentata in un numero crescente di conflitti locali, come ci avverte papa Francesco, che si stanno pericolosamente coagulando. Oltre a coltivare un po’ di granturco per autoconsumo, l’ex-deputato del Canton Ticino ha utilizzato le tecnologie più avanzate per ridurre le dispersioni termiche della sua abitazione, una casa antica restaurata con grande rispetto, e utilizza fonti di energia rinnovabile per soddisfare il fabbisogno residuo. In un caso e nell’altro ha ridotto il suo consumo di merci – cibo ed energia – senza privarsi di nulla, ha ridotto la sua dipendenza dal mercato e la sua impronta ecologica, ha migliorato la qualità della sua vita. Quella che si sta facendo strada è una concezione del progresso che presuppone la conservazione di quanto è ancora vitale nel patrimonio dei saperi e dei valori che ci sono stati lasciati dalle generazioni passate, con l’obiettivo di superarne i limiti e di accrescerlo con innovazioni tecnologiche finalizzate a ridurre progressivamente l’impronta ecologica e non ad aumentare la produttività. A fare sempre meglio e non sempre di più.

La stessa concezione del progresso l’ho ritrovata anche nel bellissimo libretto di Pierre Rabhi, Parole di terra, che Filomena ha letto mentre eravate al mare nei giorni piovosi della scorsa estate. Ed è personificata dal comportamento del ragazzo nato in un villaggio maghrebino, che dopo aver studiato agronomia in Francia, ha deciso di tornare al suo paese, dove il paesaggio, i rapporti sociali e il sistema dei valori sono stati stravolti dalla trasformazione dell’agricoltura da attività di sussistenza in attività estrattiva finalizzata alla vendita della produzione, le monocolture e la concimazione chimica hanno impoverito la fertilità dei suoli, la biodiversità si è ridotta e il clima è cambiato. Il giovane agronomo si rifiuta di applicare le sue competenze professionali a questo tipo di agricoltura e gli abitanti del villaggio lo trattano come un traditore che rifiuta di metterle a servizio del benessere della comunità. Emarginato in un luogo infestato, secondo le credenze popolari, da spiriti malefici, egli ricomincia a coltivare la terra con i metodi tradizionali reinterpretati alla luce delle conoscenze scientifiche che ha acquisito e ottiene, con grande fatica, il risultato di rendere fertile un luogo che non lo era mai stato a memoria d’uomo e di ripristinare la biodiversità che caratterizzava il paesaggio di quei luoghi prima della grande trasformazione impressa all’agricoltura. Non è una storia a lieto fine, è il racconto di quanto Pierre Rabhi sta facendo con i contadini del Burkina Faso. E un segnale che una cultura non omologata sul paradigma della crescita e della mercificazione sta riemergendo dalle macerie sotto le quali è stata sepolta.

Un abbraccio dalla tua

Delfina

 

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *