Hannah Coulter è un romanzo che lascia l’amaro in bocca perché è tremendamente vero. E nell’esser vero è anche irriducibile a un’unità concettuale: non si può definirlo, non si può dire cosa sia. È la vita, è tutto. Ogni pagina rispecchia la poliedricità dell’autore, Wendell Berry, che è romanziere, poeta, critico culturale, ma anche agricoltore, attivista ecologico, pacifista e fermo oppositore di quella che chiama l’«economia faustiana» del nostro tempo. Berry intreccia con grande maestria la riflessione poetica e spirituale con i valori della vita rurale, condisce il suo ragionamento con i temi del rispetto ambientale e dell’agricoltura a misura d’uomo. Dalle pagine del romanzo emerge una critica netta allo stile di vita americano, alla cultura del lavorismo che sfinisce la vita, alla rapidità del moderno che non lascia più tempo per vivere.

Hannah Coulter ha alle spalle due matrimoni e tre figli. Ormai vecchia e vedova, trascorre i suoi ultimi anni nella fattoria del Kentucky, dove ha sempre vissuto, ricordando le vicende della propria esistenza. Le gioie della giovinezza, la tragedia della guerra che la rende presto vedova, il lavoro nella fattoria, la prima figlia orfana, poi il secondo matrimonio, gli altri due figli, la felicità dei primi periodi, la vita fatta di piccole cose, che diventano grandi nella condivisione, nella compassione, nel desiderio di elaborare forme relazionali buone, comunitarie. Ma il progresso avanza a grandi falcate, i ragazzi studiano, si formano secondo i canoni dell’istituzione scolastica, quella stessa istituzione facente capo all’élite dominante, per cui se i contadini vogliono essere al passo coi tempi devono «crescere o sparire». È la legge della competizione, dei numeri, del mercato: chi resta indietro non può far altro che soccombere.

Hannah e Nathan (il secondo marito) desiderano che i figli studino, ma in cuor loro sanno che proprio quella formazione istituzionale che riceveranno li allontanerà per sempre da loro. Infatti tutti e tre i figli lasceranno ben presto quel piccolo centro di uno Stato del Sud per stabilirsi nelle megalopoli del grande business. Hannah e Nathan li vedono cambiare: i figli vengono di rado a trovarli, hanno tutti situazioni familiari complicate a causa dei ritmi di vita, della frammentazione sociale che subiscono, del lavoro che sconvolge tutto: affetti, amicizie, parentele. E alla fine non resta più niente: si sfilacciano i rapporti logorati dal non detto, dal non poter dire, perché non c’è tempo, e non c’è perché «il tempo è denaro», «il mattino ha l’oro in bocca» e altre amenità del genere.

Il romanzo di Wendell Berry si rivela un’opera dirompente, piena di forza e d’amore per il mondo rurale, ormai irrimediabilmente perduto nell’America di oggi (ma il discorso potrebbe ampliarsi a tutto l’occidente, e forse ormai al mondo intero). Pagina dopo pagina si scorgono atti di devozione alla bellezza di un mondo «fatto» di terra, di cose semplici e autentiche, intessuto di passione e di vera umanità. Sì, Hannah Coulter è tutto questo, ma è anche una riflessione amara e lucida sulla condizione umana, sulla debolezza, sugli egoismi di cui siamo capaci, sul precario equilibrio tra l’uomo e la natura. Sullo sfondo resta una speranza: il nipote, che era perduto, ritorna. C’è il salto di una generazione, quella generazione ubriaca di progresso e capitalismo che non sa ritrovarsi, che ha percepito come valore l’affrancamento dalla vita contadina, che ha fatalmente interrotto un trasferimento di conoscenze che perdurava da secoli, che si è fatta irretire dalla modernità, ha abbandonato la comunità, è andata in città, ha perso ogni cognizione del «saper fare» in favore della mercificazione, ha studiato per volontà di riscatto, spinta anche dai genitori, che poi sono rimasti soli e con l’andare degli anni incapaci di provvedere alle esigenze della campagna.

Ma da nonna a nipote è come se il cerchio torni a chiudersi di nuovo e improvvisamente. Così resta ancora una luce accesa all’orizzonte: è l’utopia. È la speranza che dal buio della notte, prima o poi, si esca, e che ricominci presto a fare giorno. Quel giovane scapestrato, il figlio di sua figlia, che torna in paese per vivere nella fattoria e seguire così le orme dei nonni è l’emblema della sfida alla cultura dominante. Un altro mondo è possibile ed ha concrete capacità di futuro, ha dalla sua il tempo: perché proprio dove abita la gioventù balugina il futuro.

 

Alessandro Pertosa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *