Il clima sta cambiando, è diventato più imprevedibile e sono aumentati per intensità e numero i fenomeni metereologici estremi (come siccità, uragani o inondazioni).

Secondo uno studio del 2006 di David Lund e collaboratori[1], la Corrente del Golfo, ovvero quella parte del nastro trasportatore che si trova al largo delle coste della Florida e che porta acqua calda nel nord dell’Atlantico, potrebbe rallentare a causa dell’accelerazione dello scioglimento delle calotte polari – il che comporta che l’acqua fredda, diluendosi sempre più con l’acqua dolce dei ghiacci, non è abbastanza salata da affondare, con il risultato che non ci sarà più il movimento di acqua calda verso nord. Johan Rockstrom e Anders Wijkman nel loro ultimo libro “Natura in bancarotta[2]” citano alcuni recentissimi studi che dimostrano come anche con l’utopistico azzeramento delle emissioni di CO2 entro il 2050 non si avrebbe la ragionevole certezza di rimanere entro la soglia politica dei 2°C – avremmo infatti ancora il 30% di probabilità di andare incontro alla catastrofe -, a causa dei meccanismi di inerzia di un riscaldamento globale che si è già messo in moto. Inoltre, il clima del nostro pianeta e in generale gli ecosistemi sono sistemi variabili tipicamente non lineari, il che significa che esistono delle soglie che, una volta superate, hanno delle conseguenze negative inaspettate a causa degli effetti irreversibili che il superamento delle stesse ha portato.

L’Artico, la calotta glaciale della Groenlandia, il regime dei monsoni o le grandi foreste pluviali dell’Amazzonia e del Congo potrebbero, una volta superate certe soglie, innescare cambiamenti strutturali assolutamente fuori controllo. Fino ad ora circa la metà delle emissioni di gas serra dell’uomo sono state assorbite dalla biosfera (oceani ed ecosistemi terrestri, come foreste o aree umide), ma in un futuro non troppo lontano potrebbe non essere più così. Prendiamo gli oceani: quando si scaldano e diventano più acidi (ed è proprio quello che sta accadendo), la loro capacità di assorbire CO2 diminuisce – ma la stessa cosa sta accadendo con la vegetazione, che secondo molti scienziati potrebbe presto diventare una fonte di emissione di carbonio anziché un serbatoio, ad esempio a causa degli incendi. I dati paleoclimatici degli ultimi 65 milioni di anni suggeriscono come la diminuzione della CO2 nell’atmosfera sia stata una delle principali variabili a causare il raffreddamento del pianeta nel lungo termine.

Parallelamente, possiamo notare che a una concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera pari a 450 ppm il pianeta ha sempre registrato nella sua storia passata la totale assenza di ghiacciai – ma perché ciò avvenga ci vogliono alcuni secoli. Nel caso dell’Artico abbiamo già superato una prima importante soglia nell’estate del 2007, quando si è improvvisamente ridotta del 30% l’estensione dei ghiacci (ed è bene ricordare che nessun scienziato, nemmeno il più pessimista lo aveva previsto). Un secondo record negativo è stato toccato il 16 settembre del 2012, con una perdita del 40% dell’estensione dei ghiacci dell’Artico (pari a 3,41 milioni di Km², ovvero 3,29 milioni di Km² in meno del valore medio del periodo 1979-2000). I ghiacciai ad essere in pericolo sono i tre grandi ghiacciai continentali (oltre a quelli più piccoli delle varie catene montuose in giro per il mondo), ovvero quello dell’Antartide orientale (22.500.000 gigatonnellate), dell’Antartide occidentale (2.100.000 gigatonnellate) e quello della Groenlandia (2.700.000 gigatonnellate). “Nel 2013 la Groenlandia ha perso 200 gigatonnellate di ghiaccio, l’Antartide occidentale 115 e l’Antartide orientale 15, per una perdita netta di 330 gigatonnellate[3]”. Flynn sostiene nel suo libro “Senza alibi” che da quanto risulta dai modelli dei ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra di Oxford, per il 2100 ci si aspetta un aumento di temperatura media pari a 6 gradi centigradi, “mentre i ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide occidentale saranno scomparsi (con aumenti catastrofici dei livelli del mare). Hanno aggiunto che, anche se nel 2100 riuscissimo a bloccare il CO2 a 1.000 ppm, le temperature continuerebbero a salire comunque, e intorno al 2300 tutti e tre i ghiacciai polari sarebbero scomparsi[4]”.

Tutto fa pensare che per il 2100 i livelli dei mari saranno aumentati di almeno 12 metri (in realtà qualcosa di più, dato che il calore fa espandere l’acqua). Il repentino scioglimento dei ghiacci dell’Artico aumenta ulteriormente il riscaldamento del pianeta a causa della variazione dell’albedo (ovvero il grado di riflettività delle radiazioni in entrata): una superficie ghiacciata riflette nello spazio fino all’85% delle radiazioni solari, mentre una superficie scura può arrivare ad assorbirne fino all’85%.

Ma l’altro fenomeno che sta già contribuendo al circolo vizioso del riscaldamento globale è lo scioglimento del permafrost, il sottile strato di ghiaccio perenne che ricopre enormi distese di gas metano in Siberia e nel Nord America (una molecola di metano ha una capacità di trattenere calore 25 volte maggiore di una molecola di CO2). Si stima che al di sotto del permafrost ci siano 1.672 gigatonnellate di carbonio, abbastanza per accrescere il contenuto di CO2 dell’atmosfera di 804 ppm[5].

Secondo una ricerca degli scienziati Kevin Schafer e collaboratori[6]del 2011, la quantità di carbonio che potrebbe liberarsi nell’atmosfera entro il 2200 è tra il 29 e il 59 per cento del totale contenuto al di sotto del permafrost. Ma quello che più preoccupa Schaefer è che potremmo essere vicinissimi a un punto critico – forse tra meno di vent’anni –, ovvero una soglia superata la quale non sarà più possibile fermare la fusione del permafrost. Abbiamo imboccato la strada del suicidio collettivo, stiamo infatti accelerando sempre più il momento in cui non sarà più possibile fermare il riscaldamento globale con la semplice riduzione o fosse anche l’eliminazione dei gas serra immessi dall’uomo nell’atmosfera: si avvicina quindi il tempo in cui l’umanità scoprirà di avere scoperto il vaso di Pandora. Ma non è solo una questione di clima. La fusione dei ghiacci dell’Artico diminuisce la salinità dell’Oceano Artico – con effetti sulle riserve ittiche, le reti alimentari e una sostanziale diminuzione dell’ossigeno a causa della diffusione di specie invasive – e inoltre la continua emissione di anidride carbonica nell’atmosfera cambia la chimica degli oceani (la cui acidificazione è già aumentata del 30% secondo la NASA), con conseguenze deleterie sulle conchiglie e sugli organismi che formano i coralli (che necessitano di carbonato di calcio per la loro formazione).

Le barriere coralline rappresentano il 90% circa della biodiversità degli ecosistemi marini e l’acidificazione e l’aumento delle temperature dei mari mettono a rischio la stessa sopravvivenza dei coralli o di parte del plancton. Questo significa che il riscaldamento globale non vuol dire “semplicemente” che avremo più siccità, inondazioni e uragani, ma anche che assisteremo a una vera e propria distruzione di interi ecosistemi con effetti domino assolutamente imprevedibili che non potranno che danneggiare pesantemente anche la nostra società.

Manuel Castelletti

Fonte: decrescita.com

 

 

[1] Lund, David C., Jean Lynch-Stieglitz e William B. Curry, 2006. Gulf Stream Density Structure and Transport During the Last Millennium in Nature, 444, pp. 601-04.

[2] Natura in bancarotta. Johan Rockstrom, Anders Wijkman. Edizioni Ambiente, 2014.

[3] Senza alibi, James R. Flynn, pag. 44

[4] Ibid., pag. 37.

[5] Ibid, pag. 52-53.

[6] Schafer, Kevin, Tinjun Zhang, Lori Bruhwiler e Andrew P. Barrett, 2011. Amount and Timing of Permafrost Carbon Release in Response to Climate Warming, in Teluus, 63B, pp. 165-80.

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