Ci sono luoghi nella mia terra in cui è difficile immaginare la pace e la bellezza. Luoghi dove la natura è cancellata dalla mancanza di speranza e di prospettiva. Luoghi dove l’amore è negato dal narcisismo e dalla brutalità.

È in quei luoghi, però, che torno tutte le volte che desidero sentire il flusso della vita perché è lì che nasco ed è lì che muoio un po’ ogni giorno. Che si chiami Terra dei Fuochi o che sia semplicemente l’orto dietro casa mia, lì trovo la forza di immaginare il futuro e le sue radici. Ed è in un punto preciso del mio campo, tra il gelso intorno al quale si arrampicano le mie piccole zucche e gli albicocchi che nessuno ama più, che tratteggio il disegno di un giardino nuovo, fatto di Alberi Dimenticati.

Perché gli Alberi Dimenticati esistono, come contorni sfumati dei sogni di quand’ero bambina. Sono alberi come il cotogno, i cui frutti legnosi riempiono di profumo le torte delle nonne o come il nespolo mediterraneo, di cui ci sfugge perfino l’aspetto, del tutto obliato da varietà moderne dai nomi d’oltreoceano.

Pero Cotogno
Pero Cotogno

Sedendo per terra, sporcandomi il jeans e le mani, fisso lo sguardo tra le foglie per un po’. Gli uomini hanno scelto le grandi coltivazioni, le rese sicure, l’ingegneria genetica e l’innovazione forzata in un campo, l’agricoltura, in cui la fertilità è figlia solo di una spontaneità che vuole essere addomesticata con dolcezza. Abbiamo creato grandi eserciti in luogo di piccoli e funzionali drappelli di sentinelle, senza renderci conto che ciò che è troppo grande spesso finisce con il perdere l’identità, mentre l’esigenza di sicurezza va trasformandosi in meschinità. E andar dietro alle novità non vuol dire sempre progredire: vuol dire sovente dimenticare.

Bisogna fare i conti, dicono, con il mercato. Dobbiamo immettervi serie ininterrotte di nuove cultivar, preferendo piante resistenti agli attacchi degli insetti fitofagi e commercialmente convenienti solo per un ciclo di 5-9 anni, per poterle poi sostituire con altre varietà quando le rese cominciano a diminuire. Sono piante i cui semi sono ibridi, sterili, privi di futuro, perché ci rendano tutti dipendenti dalle multinazionali dell’agrochimica. E in questa folle corsa alla più gigantesca e distruttiva modifica del paesaggio che sia mai esistita, il modo in cui la natura si è espressa fin dalla sua alba, la biodiversità, diventa essa stessa un termine alla moda e nulla più.

Ricordare gli alberi, questi possenti, fruscianti, tranquilli amici, non è dunque un esercizio di memoria. Bisogna tornare a riconoscerne le fattezze, un po’ come bisogna tornare a interpretare l’alfabeto dei nostri sentimenti. E’ una questione di ritmo: senza seguire quello cadenzato delle stagioni, della luna e del cuore, non potremo che sentirci smarriti.

Perciò il mio Giardino sarà un ricordo vivente di ciò che non è più e sarà popolato da giovani alberi di specie dimenticate. Sotto i loro rami mostrerò alle persone la loro delicata resistenza al tempo e racconterò loro storie perdute di bambini nemmeno troppo antichi, di tradizioni cancellate dalla modernità e di quanto sia importante, a volte, recuperare il passato per dare vita al futuro. Con i loro frutti preparerò leccornie da mangiare su tovaglie a quadroni stese alla rinfusa sull’erba e su quell’erba inviterò tutti a sdraiarsi, per sentire quella frescura naturale che non ci appartiene quasi più. Si può sognare ad occhi aperti all’ombra di alberi così.

Perché è vero che, come è accaduto per la lentezza, questi alberi non hanno più voce, se non quella del vento. Ma, a sforzarsi di ascoltare il vento e di prendere la corrente giusta, si può anche imparare a volare.

Miriam Corongiu

 

 

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