Un altra economia. La Cappella Sistina non viene valutata nel PIL, ma ha certamente aumentano il benessere dell’umanità; così come la ricerca scientifica e le ricadute nella speranza di vita dell’uomo. Occorre riconoscere che il nostro rapporto con l’economia va cambiato

di Mauro Gallegati, per il Manifesto

Come recita il titolo di un fortunato libro, il PIL è “una misura sbagliata della nostra vita”. Ora, a parte gli irriducibili mainstream (neo)liberisti, “ragionieri dell’economia” – la definizione è di Paolo Sylos Labini che così bollava chi considera solo i costi monetari e trascura gli altri – sono sempre più quelli che valutano il benessere come prodotto da vari domini. Un tratto comune a tutti i paesi è che mentre il PIL cresce, il capitale naturale si deteriora, come in una trappola ecologica – una configurazione ambientale scelta da una specie perché sembra vantaggiosa nell’immediato, ma che nel tempo si rivela foriera di effetti negativi per la specie stessa. È un segno caratteristico dell’Antropocene – l’epoca geologica attuale dove alle attività umane sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, ambientali e climatiche – quello di produrre beni e servizi a scapito dell’ambiente, cioè di noi stessi. La giustificazione per decenni è stata quella del male necessario: se vogliamo avere più beni a disposizione o un lavoro che ci consenta una remunerazione monetaria per vivere, dobbiamo rinunciare ad un po’ di “verde”. Ora però siamo di fronte a 2 nodi:

1. La quasi totalità degli scienziati ci dice che ci stiamo avvicinando al punto critico dell’ambiente, ovvero l’inquinamento sta superando la capacità di carico dello stesso;
2. il legame tra PIL ed occupazione è assai indebolito, se non scomparso. Gli economisti parlano di “disaccoppiamento”, di crescita fredda: il PIL aumenta senza che ci sia creazione di nuova occupazione poiché la produttività continua a crescere grazie ai “robot” – e con essa i profitti – ma non i salari e gli occupati, provocando la scomparsa classe media ed il fenomeno di chi, pur lavorando, resta povero.

Se guardiamo al solo PIL ed alla sua crescita dobbiamo riconoscere non solo che la sostenibilità è impossibile (l’entropia ci dice che non saremo mai in grado di produrre senza scorie che non potranno mai più rientrare nel ciclo produttivo – i processi di riciclo o recupero devono essere certo affiancati a processi produttivi meno inquinanti, e il mercato lo farà certo spontaneamente, ma semmai sotto la spinta dei consumatori – e di policy maker e imprenditori lungimiranti), ma che non abbiamo gli strumenti per affrontare le crisi attuali: quella ambientale e quella distributiva – di reddito, ricchezza e sfruttamento delle risorse naturali – all’origine dei fenomeni di populismo e nazionalismo che minano la democrazia. Occorre prendere coscienza che per risolvere i problemi abbiamo bisogno delle metriche adeguate. E il PIL non lo è, né invero era stato pensato per quello. Sembra ovvio all’uomo comune – ma non ai ragionieri dell’economia – riconoscere che il benessere non dipende solo dalla crescita del PIL, ma anche dalla società e dalla natura.

È necessario un cambio di paradigma: liberarci dall’assillo della crescita a tutti i costi. Acrescere non solo si può, ma si deve. Se il PIL crescesse al 4% l’anno, a vantaggio del solo 1% della popolazione mentre gli occupati fossero in diminuzione, dovremmo esserne contenti? E ancora: se l’economia entrasse in conflitto con l’ecologia, fino a che il collasso di questa determinasse la scomparsa della vita e dunque della prima, dovremmo preoccuparci? Mentre appare non più procrastinabile adottare produzioni ad impatto ambientale zero, che generino sprechi quasi nulli, il cambio “verde” è necessario, ma non sufficiente. Solo il progresso (l’aumento del benessere) e non la crescita (del PIL) è sostenibile.

Solo riconoscendo la natura multidimensionale del benessere – dove natura, economia e società convivono – la sostenibilità ha un senso. La Cappella Sistina non viene valutata nel PIL, ma ha certamente aumentano il benessere dell’umanità; così come la ricerca scientifica e le ricadute nella speranza di vita dell’uomo. Occorre riconoscere che il nostro rapporto con l’economia va cambiato. Intanto dovremmo mirare al benessere e non alla massimizzazione del solo PIL. Smetterla quindi di cercare di dare un prezzo a tutto, ossia di assumere che il PIL sia la misura della nostra vita. Gli economisti dovrebbero essere “scienziati sociali”, riformatori utili. Ci si è accorti ora che la sostenibilità è importante. Bene. Ovvio che una crescita “verde” è meglio di una “grigio topo”. Ma entrambe prima o poi si fermeranno perché le leggi della fisica sono invalicabili e è sensato parlare di “economia circolare” come lo è discutere del moto perpetuo. Dobbiamo fare un passo ulteriore riconoscendo che il solo benessere, e non il PIL, può essere sostenibile. Coi loro modelli matematici astratti e di equilibrio – sarà il caso di ricordare che, per la scienza, un organismo in equilibrio è tale solo quando è morto? – gli economisti mainstream appaiono sempre più come quei collezionisti di eserciti in miniatura che con questi vogliono invadere la Grecia.

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