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Un contributo di Elllison Paulista, membro del Gruppo Tematico Economia&Decrescita (*)

Lo scorso 7 settembre 2020, durante il convegno “#Smartworking: dall’emergenza all’opportunità”, trasmesso in diretta dal Senato e ora disponibile in streaming, i ministri del Lavoro, della Pubblica Amministrazione e dell’Ambiente hanno dichiarato che lo smart working, detto anche lavoro agile, deve essere promosso perché fa bene ai lavoratori, alle imprese, alla pubblica amministrazione e all’ambiente. Tutti sono concordi nel ritenere che questa modalità flessibile di lavoro debba essere trasformata da soluzione temporanea a investimento strutturale.

Lo smart working, come hanno sottolineato tutti i ministri e gli esperti intervenuti durante il seminario, non è il lavoro da casa o il telelavoro, ma è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante un accordo tra datore di lavoro e lavoratore.

E’ disciplinato dalla Legge n. 81/2017 che stabilisce che:

  • può essere articolato per obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro;
  • l’attività lavorativa viene eseguita in parte in azienda e in parte all’esterno senza una postazione fissa;
  • l’orario di lavoro non è determinato in maniera rigida ma deve rispettare i limiti di durata massima giornaliera e settimanale che hanno stabilito la legge e la contrattazione collettiva.

Quindi lo smart working non è per i lavoratori autonomi (es. professionista con partita iva), ma è per i lavoratori dipendenti (es. impiegato).

I dipendenti che operano in smart working non devono timbrare la mattina alle 8.30 e poi “stimbrare” la sera alle 17.30. Possono gestire la prestazione lavorativa anche in fasce orarie diverse, cioè senza vincoli di orario, purché non lavorino oltre quella che la legge sull’orario di lavoro  individua come durata massima giornaliera. Lo smart worker può ipoteticamente iniziare a lavorare dopo che ha portato il figlio a scuola, è passato dal panettiere, magari ha pagato una bolletta alle Poste. Quella mezz’ora che ha “perso” (dal punto di vista dell’azienda), ma guadagnato (dal punto di vista del lavoratore), può essere recuperata lavorando fino alle 18, ad esempio. Addirittura si potrebbero non avere più orari “d’ufficio”: il lavoratore è libero di lavorare quando vuole, sempre nei limiti massimi, perché l’importante è che contribuisca al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Questa nuova modalità di lavoro è quindi “rivoluzionaria” e, se non attuata correttamente, potrebbe anche portare a delle distorsioni.

Il Ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, durante il seminario, ha quindi sottolineato che, per evitare che non ci siano limiti di orario per lo smart worker e che questi si trovi a dover lavorare anche sabato e domenica, è fondamentale disciplinare in modo dettagliato il cosiddetto “diritto alla disconnessione”.

Attualmente la Legge n. 81/2017 prevede che l’accordo fra datore di lavoro e lavoratore deve  individuare i tempi di riposo dello smart worker e anche le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro (es. pc, smartphone).

E’ importante che si individui una disciplina di dettaglio del diritto alla disconnessione, perché l’applicazione continuativa alla strumentazione tecnologica ha impatti negativi sulla salute dello smart worker, causando “tecnostress”, ossia lo stress indotto nel lavoratore dall’uso di nuove tecnologie (digitali e informative). Ecco perché si auspica che questo diritto possa essere disciplinato dalla contrattazione collettiva (contratti collettivi nazionali o regionali di lavoro e/o contratti aziendali), per non lasciare ad una discussione individuale con il proprio datore di lavoro aspetti che in realtà riguardano potenzialmente l’intera popolazione aziendale.

Durante il seminario è stato ribadito più volte che lo smart working non è telelavoro e non è “home working”, cioè lavoro da casa. Nei periodi di lockdown si è assistito più ad un lavoro da casa (home working) che ad un vero e proprio smart working. 

Nello smart working l’attività lavorativa può essere svolta all’esterno dei locali aziendali senza una postazione fissa (scrivania, ufficio). Quindi, ad esempio, oltre che da casa, si potrebbe lavorare in modalità smart mentre si aspetta che il proprio figlio termini la lezione di arrampicata, o mentre si viaggia in treno per andare a trovare dei Clienti, o mentre si è in fila dal medico di base, o si è seduti nella panchina di un parco. Pensiamo sempre a situazioni in un contesto post pandemia. Tutte assolutamente reali e in cui molti di noi si possono trovare. In questi casi sarà molto importante tutelare la sicurezza del lavoratore, che non è seduto alla propria scrivania in ufficio, e che utilizza un computer portatile, non uno fisso, e che potrebbe essere circondato da curiosi che, annoiandosi, buttano l’occhio sullo schermo del computer. Quindi la sicurezza sul lavoro, la privacy, la sicurezza informatica, la tutela dei dati aziendali devono essere correttamente disciplinati affinché non ci siano più limiti allo smart working.

Sempre il ministro Catalfo ha ricordato che nel periodo del lockdown sono stati registrati 1.827.792 lavoratori attivi in modalità smart working (al 20 aprile); di questi, ben 1.606.617 sono stati attivati a seguito delle norme sull’emergenza epidemiologica. 

Il ministro della Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone ha anche sottolineato che quasi un anno fa l’Italia, rispetto agli altri Paesi europei, si trovava ad una percentuale molto bassa di smart workers (2% di lavoratori a fronte dell’11,5% circa di lavoratori europei).

Abbiamo letteralmente assistito ad un vero e proprio “shock culturale”.

La pandemia ha quindi trasformato una situazione molto problematica in una occasione di potenziale virtù anche per la Pubblica Amministrazione.

Per riuscire a garantire i servizi, infatti, molti lavoratori della Pubblica Amministrazione, durante il lockdown, sono diventati smart workers e si prevede che il 60% dei lavoratori “smartizzabili” della PA, cioè che svolgono attività che si prestano allo smart working, potranno lavorare in modalità smart fino al 31/12/2020. Inoltre, dall’1/01/2021 ai Dirigenti della PA si chiederà di individuare, in base al tipo di amministrazione pubblica, le attività per le quali è possibile lavorare in smart working puntando a fare in modo che, a regime, si raggiunga almeno il 50% di smart workers nella PA.

“Lo smart working tende inoltre a semplificarci la vita”, ha dichiarato durante il seminario il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. Il lavoro “normale” richiede spostamenti, lavoro che sottrae tanto tempo alla famiglia, alla vita. Questo momento topico non va sprecato. Lo smart working è l’inizio di un cammino verso la semplicità dei rapporti, verso un nuovo modo di affrontare il quotidiano in termini di lavoro. In questo senso, l’aspetto ambientale è quindi solo uno degli aspetti.

C’è sicuramente il tema della mobilità, perchè nel lavoro “normale” si prende la macchina, si inquina, ma c’è anche un tema di dematerializzazione perchè, ad esempio, si usa molta carta nell’attività d’ufficio, si creano infiniti archivi cartacei, si stampa molto, etc.

Con riferimento alla mobilità, il fatto che così tanti lavoratori, durante il lockdown, non si siano recati quotidianamente con la propria macchina in ufficio, sia perchè in smart working, sia perchè, purtroppo, non potevano lavorare causa blocco di molte attività produttive non essenziali (ma avrebbero potuto farlo in modalità smart working?), ha generato effetti positivi inaspettati: la qualità dell’aria che respiriamo è aumentata anche in Regioni come l’Emilia Romagna, da sempre in cima alla classifica delle Regioni più inquinate; abbiamo posticipato di circa un mese il cosiddetto “overshoot day”, cioè il giorno che segna l’esaurimento delle risorse rinnovabili che la Terra è in grado di rigenerare in un anno; i mari sono diventati meno inquinati e si sono moltiplicati gli avvistamenti di delfini sulle coste.

Il ministro dell’Ambiente ha però ricordato che in un concetto di “ecologia integrale”, si deve avere un obiettivo più ampio di miglioramento della vita in generale, considerando la persona in quanto tale. Bisogna valutare l’opportunità di nuovi contesti abitativi e lavorativi, magari riscoprendo le campagne. 

Durante il lockdown, non dovendosi spostare verso le città, le persone hanno riscoperto il proprio territorio. Dal globale al locale. E’ vero che l’adozione dello smart working da parte di molti italiani diminuisce la frequenza nei bar o ristoranti o mense cittadine, ma è anche vero che può aumentare il ricorso a beni e servizi forniti da produttori locali, del proprio Comune che possono quindi avere così la speranza di non dover chiudere perché impossibilitati a competere con la grande distribuzione organizzata (GDO).

In quel periodo di forzato isolamento, le persone hanno riscoperto l’importanza di recuperare gli insegnamenti dei propri nonni, sia nell’autoproduzione di cibo sia nella riparazione di beni sia nella diminuzione dello spreco. Questo ha contribuito ad abbassare l’impatto ambientale di ciascuno e al contempo ha fatto capire che è possibile vivere anche in un altro modo, più sano e umano.

 

Il Prof. De Masi, sociologo di chiara fama, nel suo intervento durante il seminario, si è chiesto: ma allora, se lo smart working è così vantaggioso perché abbiamo dovuto attendere che si verificasse una pandemia per renderlo pienamente operativo? A suo parere la possibile causa è che dietro 8 milioni di lavoratori ci sono 800.000 capi che hanno impedito tutto questo. Perché, sostiene De Masi, il manager di oggi ha una “visione tattile”, deve cioè avere sotto gli occhi il lavoratore e lo deve controllare fisicamente.

Questi manager dovranno cambiare approccio, perchè con lo smart working hanno dei vantaggi anche le aziende e le pubbliche amministrazioni: è dimostrato che aumenta la produttività del 15%, riduce l’assenteismo, consente il risparmio di costi aziendali (ad es. manutenzione stampanti, affitti dei locali, acquisto di cancelleria, trasferte, flotte aziendali, etc). Inoltre assicura una continuità alle attività produttive anche in condizioni straordinarie come quella della pandemia. Quindi, questi “manager”, che fino ad oggi si sono ispirati al taylorismo, che si basava sul controllo degli operai per la massima efficienza (produrre di più in meno tempo), dovranno aprire le loro menti ed essere formati per poter “ingaggiare” i propri collaboratori anche se non sono in ufficio. Non devono controllarli, devono motivarli, saper dare loro degli obiettivi raggiungibili e poi verificare che questi siano raggiunti.

Come diceva Papa Paolo VI nella lettera enciclica “Populorum Progressio” nel lontano 1967, “il lavoro non è umano se non è intelligente e libero”. 

Forse, a distanza di 50 anni, abbiamo lo strumento che può farci diventare lavoratori intelligenti, liberi e felicemente decrescenti!

 

(*) Gruppo Tematico Economia & Decrescita MDF

Il Gruppo Tematico è nato nel giugno 2015 allo scopo di affrontare il rapporto tra Decrescita ed Economia in modo sistematico, sia a livello microeconomico (proposte economiche in ambiti specifici) che a livello macroeconomico (definizione dei parametri che possono caratterizzare uno scenario economico con un impatto ecologico sostenibile).

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