Un contributo di Bernardo Servegnini (del circolo di Lucca) e Nello De Padova, membri del Gruppo Economia & Decrescita di MDF

 

La realtà che percepiamo è deformata dalla scala che utilizziamo per osservarla. Mettere a fuoco una situazione per coglierne tutta la sua essenza dipende molto da come ci poniamo all’interno di quell’universo che va dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande.

Nelle scienze sociali ed economiche, il concetto di scala riveste una funzione fondamentale. A partire dal 1989, anno della caduta del muro di Berlino, si comincia a parlare, ad esempio, di “globalizzazione”. La scala globale. A questo concetto fu dedicato tra l’altro quel famoso G8 di Genova di cui quest’anno si è celebrato il ventennale, un evento in cui due visioni del mondo si contrapposero, con effetti tragici: da una parte i grandi della Terra che discutevano di un Nuovo Ordine Mondiale e di come fare per governarlo, dall’altra i cosiddetti “no-global”, rappresentanti di una visione alternativa del mondo che rifiutava il potere globale e l’omologazione culturale dei popoli, rivendicando invece il diritto delle comunità a decidere “dal basso” il proprio destino.

A vent’anni di distanza, il termine “no-global” non esiste più. Quei movimenti si sono rinominati “alter-mondialisti”. Grandi apparati mediatici allestiti dal potere hanno lavorato ai fianchi, anzi dall’interno, i movimenti antagonisti fino a modificarne completamente il lessico e soprattutto la natura, rendendola più facilmente controllabile, assimilabile e di fatto innocua rispetto ai piani delle oligarchie “globaliste”. Sembra che oggi siano tutti d’accordo su quale sia la scala migliore.

Mentre vent’anni fa era la sinistra politica a partorire i più importanti impulsi contro la globalizzazione, oggi quei pochi che a sinistra si ostinano a rifiutare le logiche globaliste vengono impietosamente battezzati “rosso-bruni”, secondo i canoni di una neo-lingua molto in voga nei networks mainstream, che sono governati dagli stessi gruppi del potere globale. Piuttosto, i partiti politici di massa che promuovono una visione critica della globalizzazione sono oggi quelli riconducibili alle destre nazionaliste, che fanno leva su sentimenti patriottici ottocenteschi e retrogradi, ma che riescono a ottenere successo grazie anche alla denuncia dei danni evidenti che questa globalizzazione sta creando, danni che la “socialdemocrazia” non può permettersi di denunciare, essendone ormai complice se non artefice. Siamo arrivati al punto, quindi, che si è sostanzialmente neutralizzata un’opposizione realmente democratica ai disegni oligarchici della globalizzazione. Con grande sollazzo del potere, e con grave danno per il futuro della democrazia.

Eppure, osservare la realtà da altri punti di vista ci può suggerire che la scala locale sia quella più adatta ad un’espressione autentica di democrazia e di giustizia sociale, e che sia anche la dimensione più efficace per custodire meglio il territorio e il patrimonio ambientale.

Da questa prospettiva ci accorgiamo di quanto sia pericolosa per la democrazia l’idea di globalizzazione, ma anche quella di Stato nazionale. Infatti, nemmeno lo Stato nazionale può rappresentare un valido baluardo di democrazia contro i pericoli della globalizzazione: gli Stati nazionali non sono mai stati in grado (e non lo saranno mai) di offrire un sistema lontanamente simile a una vera democrazia, ma al contrario sono sempre stati lo strumento di oppressione e controllo delle masse dall’alto. In questo senso, la globalizzazione politica non è altro che l’estensione dei principi e dei metodi oligarchici degli Stati nazionali a livelli ancora più grandi. E’ tecnicamente impossibile applicare sistemi davvero democratici a una popolazione di 60 milioni di persone (e tanto meno a insiemi ancora più grandi, come la UE o il mondo intero).  La “democrazia rappresentativa” è un travestimento sempre più raffinato che l’èlite economica indossa per far credere alle masse di essere libere. Le masse non sono libere, ma anzi sono tanto più facilmente manipolabili quanto più è grande la scala, quanto più il potere è accentrato in poche mani, in pochi organi, in pochi “parlamenti”.

La migliore democrazia si esprime in contesti molto più piccoli, come le città e i piccoli territori, nei quali tutti possono avere accesso alla costruzione delle decisioni, e non semplicemente attraverso un voto, ma attraverso la partecipazione attiva. Come accadde nelle poleis indipendenti greche, dove il concetto di democrazia, pur con tutte le imperfezioni dell’epoca, è stato partorito. E dove l’esperienza democratica è finita proprio quando sono subentrate logiche imperialiste che abbracciavano una “scala più grande”.

Anche dal punto di vista economico, la soluzione va trovata nella dimensione delle imprese e delle banche.

Le imprese devono essere di piccole dimensioni, in modo da non delocalizzare la produzione. In questo modo si eviteranno gruppi industriali multinazionali tanto potenti da controllare a proprio piacimento il destino di milioni di persone e lo sfruttamento del pianeta. Le banche a loro volta dovranno supportare cittadini e imprese della propria città e del territorio, affinchè il microcredito sostituisca la speculazione finanziaria. L’impresa e la finanza dovranno essere possedute dalle singole comunità, gestite attraverso il metodo democratico e dovranno tendere all’interesse pubblico.

Se un’istituzione (politica, economica, culturale) è piccola, può essere democratica. Più diventa grande, più automaticamente e necessariamente perde il controllo democratico per lasciare spazio al potere. E il potere è sempre portatore di disuguaglianza, di ingiustizia e di rovina. Questo vale anche per la questione ambientale, come vediamo spesso laddove, in nome di un preteso superiore “interesse nazionale” (o comunitario, o globale), si autorizzano vergognosi scempi dei patrimoni naturali.

Le istituzioni politiche ed economiche non dovrebbero superare “la scala della democrazia”, cioè la scala all’interno della quale tutti i cittadini abbiano davvero l’opportunità di incidere sulle decisioni da prendere, costruendole collettivamente e non a colpi di maggioranza. Questa scala può indicativamente corrispondere a quella di un piccolo comune, o di un municipio di una grande città. Poi certo, ci sarà sempre bisogno di coordinamento a scale sempre più grandi, ma questo coordinamento potrà riguardare solo gli affari che non si potranno risolvere in loco, ed essere basato su un dialogo alla pari e su uno scambio equo, secondo i principi della sussidiarietà.

Bisogna dunque tessere reti orizzontali di condivisione del cambiamento in modo da coinvolgere tante piccole comunità intorno a dei principi condivisi di impostazione della società, come la condivisione del lavoro e dei beni, la protezione dell’ambiente e dei diritti civili e la partecipazione attiva del popolo ai processi democratici. Questi principi si possono tanto più facilmente raggiungere quanto più piccole sono le unità produttive, finanziarie e politiche, quanto più sono libere, indipendenti e sovrane, e integrate fra loro in senso orizzontale.

In un tale contesto gli organi gestionali delle “istituzioni” (comuni, imprese, ecc…) sono organizzati per facilitare il processo partecipativo: si limitano ad un ruolo di supporto al confronto interno ed esterno e stimolano il contributo di tutti. Per contro la partecipazione di ciascuno è considerata, in quest’ottica, come un impegno dovuto da ognuno a beneficio della collettività.

In questo modo si può venire a formare una nuova struttura sociale basata sulle comunità territoriali, che conducono la propria vita politica in modo indipendente e democratico al proprio interno, e che si coordinano l’una con l’altra attraverso i meccanismi della rappresentanza per le decisioni necessarie a scale più grandi, secondo un’impostazione che procede dal basso verso l’alto, come nel meccanismo che qui proviamo a proporre, ispirato alle esperienze di successo del Chiapas messicano e del Rojava curdo:

ogni comunità di quartiere (o villaggio) si riunisce periodicamente in assemblee pubbliche per determinare le scelte politiche interne al proprio territorio. Le assemblee sono aperte a tutti, tutti hanno diritto di intervenire e le decisioni si prendono con il metodo del consenso. Queste assemblee costituiscono il cuore della democrazia, anche perchè all’interno di esse viene presa la maggior parte delle decisioni che riguardano la collettività, in un’ottica di decentralizzazione del potere non solo politico, ma anche economico e culturale. Tra le decisioni prese da queste assemblee ci sono anche quelle relative ai rappresentanti della comunità, che insieme ad altri di altre comunità, costituiscono il consesso decisionale del livello superiore. Ogni comunità sceglie periodicamente alcuni rappresentanti, ciascuno con competenze diverse in base ai diversi ambiti della vita pubblica (l’equivalente dei ministri), i quali si confrontano con gli omologhi degli altri territori, portando avanti le istanze della collettività, che in ogni momento li può rimuovere qualora non agiscano in linea con quanto emerso nelle assemblee. Questi rappresentanti, inoltre, scelgono chi debba rappresentare l’intera comunità alla scala superiore, per esempio la città metropolitana o la provincia. Lo stesso meccanismo si può replicare a livello regionale (o di bio-distretto), per questioni che riguardano quella scala (ad esempio le politiche agricole, il sistema dei trasporti, i piani industriali ecc), e a livello ancora più grande, qualora fosse necessario, e per le attività strettamente necessarie. Ma ogni decisione presa ai piani superiori avrà bisogno di essere approvata dalla base territoriale che rappresenta.  

Questa “Democrazia Partecipa e deliberativa”, non è una “Istituzione” cristallizzata, ma un processo vivente e vitale, dove le persone si incontrano/scontrano vivacemente, costruendo e ricostruendo il tessuto sociale, culturale, politico, spirituale, economico, delle Comunità che ne fanno parte. Le onde di questi processi confluiscono ai livelli di coordinamento e refluiscono ai livelli locali. Il processo è un’attività continua che si autopotenzia, e con essa crescono progressivamente le relazioni tra le persone. In questo modo una comunità di persone può raggiungere livelli maggiori di consapevolezza e agire davvero per il bene collettivo.

Ma per arrivare ad applicare un piano del genere, o comunque in generale meccanismi di partecipazione democratica, ci sarà bisogno di organizzare l’azione collettiva necessaria per recuperare maggiore autonomia da parte delle comunità locali e per ottenere un riassetto complessivo del sistema istituzionale alle scale più alte, perchè finchè le istituzioni permetteranno che nelle proprie maglie si possano insinuare logiche di oligarchia, ci sarà sempre qualcuno pronto ad approfittarne.

Imagine di apertura di Gerd Altmann from Pixabay

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