Di Helena Norberg-Hodge. Traduzione di Gloria Germani del Gruppo Internazionale. Articolo originale pubblicato su www.localfutures.org il 25/01/23

Oggi, di fronte alla prospettiva di un mondo dominato da robot e algoritmi, abbiamo urgentemente bisogno di una discussione ampia e profonda sul ruolo della tecnologia.

Uno dei luoghi comuni  più fuorvianti del nostro tempo è che la tecnologia è “neutrale”, cioè  intrinsecamente né buona né cattiva. In molti casi, ovviamente, questo è vero: un coltello può essere usato per pugnalare qualcuno o per affettare una pagnotta. Ma è altrettanto vero che alcune tecnologie sono, per loro stessa natura, contrarie alla vita: o perché la loro produzione è ecologicamente distruttiva, o perché accumulano profitti per i loro proprietari, spesso multinazionali, minando il benessere individuale e comunitario. Oppure, troppo spesso, entrambe le cose.

Le tecnologie degli ultimi decenni – dai social media, agli alimenti OGM, all’intelligenza artificiale – rientrano a pieno titolo in quest’ultima categoria. Sebbene possano offrire benefici limitati e a breve termine all’individuo, il loro impatto più significativo è quello di concentrare la ricchezza e il potere espandendo la portata  e la scala dell’economia globale.

In un futuro localizzato la tecnologia sarebbe molto diversa. Invece di massimizzare i profitti, il genio innovativo dell’uomo sarebbe al servizio della  migliore qualità della vita delle persone entro i limiti della diversità  ecosistemica.

Il tema più recente esplorato dai pensatori e dagli attivisti che compongono la Great Transition Network, è stato “Tecnologia e futuro”. Mentre uno scrittore dopo l’altro pubblicava le proprie riflessioni, è stato incoraggiante vedere che quasi tutti riconoscevano che la tecnologia non può fornire soluzioni reali alle molte crisi che dobbiamo affrontare.  Mi ha fatto anche piacere che il professor William Robinson, autore di numerosi libri sull’economia globale, abbia evidenziato il chiaro legame tra le tecnologie informatiche e l’ulteriore radicamento della globalizzazione odierna.

Chi ha seguito il mio lavoro, sa che la globalizzazione mi interessa in modo particolare. Da oltre 40 anni studio il suo impatto su diverse culture e società in tutto il mondo. Dal Ladakh e dal Bhutan alla Svezia e all’Australia, è emerso un chiaro schema: quando le persone sono spinte a dipendere sempre più da sistemi tecnologici su larga scala, si intensificano le crisi ecologiche e quelle sociali.

Non sono l’unica ad avere visto questo chiaro nesso di causa-effetto. Nell’ambito del Forum Internazionale sulla globalizzazione – una rete che ho co-fondato nel 1992 – ho lavorato con quaranta scrittori, giornalisti, accademici e leader sociali e ambientali di tutto il mondo per informare l’opinione pubblica sui modi in cui i trattati di “libero scambio”, i principali motori della globalizzazione, hanno eroso la democrazia, distrutto i mezzi di sussistenza e accelerato l’estrazione delle risorse. In Paesi molto diversi tra loro, come la Svezia e l’India, ho visto come la globalizzazione intensifichi la competizione per i posti di lavoro e le risorse, portando a una drammatica disgregazione sociale, che comprende non solo conflitti etnici e religiosi, ma anche depressione, alcolismo e suicidio.

Il professor Robinson ha scritto che siamo “sull’orlo di un altro ciclo di ristrutturazione e trasformazione basato su una digitalizzazione molto più avanzata dell’intera economia globale”.  Questo è vero, ma il legame tra globalizzazione ed espansione tecnologica è iniziato ben prima dell’era dei computer.  Gli apparati tecnologici su larga scala possono essere visti  come le braccia e le gambe del profitto centralizzato. E mentre le reti 5G, i satelliti, la raccolta  dati di massa, l’intelligenza artificiale e la realtà virtuale permetteranno alle multinazionali di colonizzare ancora più spazio fisico, economico e mentale, altre tecnologie come i combustibili fossili, le infrastrutture commerciali globali e la televisione hanno già contribuito a imporre un’economia di consumo gestita dalle aziende,  in quasi ogni angolo del pianeta.

Per ragioni sempre più evidenti, un’accelerazione di questo processo è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in un periodo di gravi crisi sociali e ambientali. Inoltre, le tecnologie stesse – dai sensori ai satelliti – si basano tutte su risorse scarse, non ultimi i minerali di terre rare.

Alcune delle società più ricche del mondo stanno facendo a gara per estrarre questi minerali dai fondali marini più profondi e dalla superficie di Marte. È stato stimato che Internet da solo – con i suoi magazzini di dati in gran parte invisibili – consumerà un quinto del consumo globale di elettricità entro il 2025.

E per cosa? Perché tutti noi possiamo passare più tempo immersi e dipendenti dai mondi virtuali? Per poter automatizzare l’agricoltura e spingere più comunità a lasciare la terra e a gonfiare le baraccopoli urbane? Perché i droni possano consegnare i nostri acquisti online senza un minimo di contatto diretto?

Quando pensiamo alla tecnologia in un contesto urbano già altamente tecnologico, possiamo facilmente dimenticare che quasi la metà della popolazione mondiale vive ancora nei villaggi, ancora legata alla terra.  Questo non vuol dire che il loro stile di vita non sia minacciato, tutt’altro.

Il Ladakh, la regione himalayana in cui ho vissuto e lavorato per diversi decenni, fino agli anni ’60 non era collegato al mondo esterno nemmeno da una strada.  Ma oggi nella capitale, Leh, si possono trovare cibi industriali  lavorati, smartphone, montagne di rifiuti di plastica, ingorghi stradali e altri segni di “modernità”.  I primi passi su questa strada sono stati compiuti a metà degli anni ’70 quando, in nome dello “sviluppo”, sono state stanziate ingenti risorse per costruire le infrastrutture energetiche, di comunicazione e di trasporto necessarie a collegare il Ladakh all’economia globale.  Un altro passo è stato quello di portare i bambini ladakhi fuori dai loro villaggi in scuole di stile occidentale, dove non hanno appreso nessuna delle competenze basate sul luogo che hanno sostenuto la cultura del Ladakh per secoli, ma sono stati formati al paradigma tecnologico-modernista.  Insieme, queste forze stanno spingendo lo stile di vita tradizionale sull’orlo dell’estinzione.

Mentre in Ladakh questo processo è iniziato relativamente di recente, in Occidente è in corso da molto più tempo, con impatti più profondi.  Ma anche qui, sempre più persone si rendono conto che la tecnologizzazione della loro vita personale ha portato a un aumento dello stress, all’isolamento e a problemi di salute mentale. Durante la pandemia le persone sono state costrette a fare tutto  online  – dalle lezioni alle conversazioni con amici e familiari – e la maggior parte ha scoperto quanto limitata e vuota possa essere la vita online.

Ora siamo di fronte a  una chiara svolta culturale, visibile anche nel mainstream, che va oltre al desiderio di passare meno tempo sugli schermi. Le persone iniziano  a rifiutare l’imposizione della  cultura consumistica e la sua legge: produci-consuma-crepa;  desiderano invece rallentare, coltivare relazioni più profonde e impegnarsi in attività più orientate alla comunità e alla natura.

Vedo giovani in tutto il mondo che scelgono di lasciare i loro lavori sul pc per diventare agricoltori. (Questo ritorno alla terra si sta verificando anche in Ladakh, e lo trovo davvero di grande ispirazione).  Stanno nascendo reti informali di aiuto reciproco. Gli amici fanno giardinaggio, cucinano e preparano il pane insieme; le famiglie scelgono di vivere della terra e di sviluppare relazioni con gli animali e le piante che li circondano. Stiamo assistendo a un maggiore rispetto per la saggezza indigena, per le donne e per il femminile, e a un crescente apprezzamento per la natura selvaggia e per tutto ciò che è vernacolare, fatto a mano, artigianale e locale. Si assiste anche all’emergere di pratiche alternative ed ecologiche in ogni disciplina: dalla medicina naturale all’edilizia naturale, dall’eco-psicologia all’agroecologia. Sebbene queste discipline siano state spesso co-optate dalle multinazionali e servite con il greenwashing,  esse sono invariabilmente emerse da movimenti  dal basso  per ripristinare un rapporto più sano con la Terra.

Sono tutte tendenze positive e significative che sono state ampiamente ignorate dai media e non hanno ricevuto alcun sostegno dai politici. Al momento, ci troviamo in salita in un sistema che favorisce in ogni modo lo sviluppo tecnologico guidato dalle multinazionali. Ma queste tendenze testimoniano una costante  buona volontà duratura,  e un profondo desiderio umano di connessione.

Se vista in una prospettiva più ampia (big -picture prospective), l’espansione delle tecnologie digitali – che sono intrinsecamente centralizzate e accentratrici – è contraria all’emergere di un futuro più umano, sostenibile e realmente connesso. Perché dovremmo accettare un’infrastruttura tecnologica ad alta intensità energetica e minerale che ha come obiettivo fondamentale quello di accelerare la vita, aumentare il tempo trascorso sullo schermo, automatizzare il lavoro e stringere la morsa dell’1%?

Per un futuro migliore, dobbiamo rimettere la tecnologia al suo posto e favorire forme di sviluppo diverse, determinate democraticamente e modellate sulle priorità umane ed ecologiche, non sui capricci di una manciata di miliardari.

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