L’intervento armato in Mali, che presto vedrà coinvolta anche l’Italia, ha ricevuto  l’imprimatur di ‘guerra giusta’ da parte del filosofo umanitarista Bernard-Henri Lévy, del resto molto benevolo nel concederlo quando le potenze occidentali decidono di ricorrere alla forza bellica.

Al di là dell’ironia, pochi sono gli oppositori dichiarati, anche perché ufficialmente lo scopo dell’intervento è di contrastare il fronte autonomista tuareg egemonizzato da Al Qaeda; il fatto che in questo modo si rafforzi la presenza militare occidentale, in particolare francese (che in quella zona ha forti interessi, specialmente con la multinazionale statale dell’energia AREVA impegnata nello sfruttamento di miniere di uranio) è un puro effetto collaterale.

Si può e si deve discutere sulle ragioni della guerra, ma forse un’analisi onesta dovrebbe affrontare i fatti più alla lontana. L’Africa, in particolare quella centrale, è stata la grande perdente della civiltà delle crescita economica, e c’è chi pensa anche ad alta voce che debba pagare lo scotto di questo suo ritardo. Sulle pagine del Corriere, Giulio Sapelli (L’Islam radicale e la nuova Africa sono un test per l’Europa, 18-01-2013) approva la linea militarista di Francia e Germania nel caso Mali perché per le due nazioni europee “le risorse energetiche del colosso africano sono legittimamente viste come il cuore della crescita, anzi, io aggiungerei della sopravvivenza futura”. Sapelli, ci tengo a ricordarlo, malgrado questa professione di fede (neo?) colonialista è considerato un economista ‘progressista’, quindi si possono immaginare le opinioni ancora più audaci di intellettuali di orientamento conservatore.

Nella secondo metà del Novecento  i piani di sviluppo post-coloniali, fossero essi di stampo capitalista-liberale o collettivista sovietico, sono riusciti ben poco a rendere competitivo sul piano economico il continente forse più ricco di risorse del pianeta, e di solito hanno prodotto solo disastri epocali. Economisti e vari operatori dello sviluppo hanno denunciato spesso l’atavica inettitudine del popolo africano, talvolta accusando le influenze culturali animiste, ree di impedire uno sfruttamento razionale delle risorse a causa della divinizzazione dei fenomeni naturali. Incapaci di trasformare le proprie nazioni in paradisi manifatturieri dello sfruttamento umano e naturale – cosa riuscita ottimamente in Asia, ad esempio – l’atteggiamento generale verso l’Africa oscilla tra il razzismo dichiarato e il paternalismo indulgente. Già mi immagino i ‘buonisti’ sconsolati allargare la braccia, recriminando sulla persistente instabilità politica africana e la conseguente impossibilità di sviluppare politiche di assistenza adeguate; costoro immagino che non avranno molto da ridire sull’intervento armato, e anzi lo approveranno. Io invece lascerei da parte il paternalismo e partirei proprio da qui, dalla continua sequela di colpi di stato, dittature militari, guerre civili.

Le nazioni africane, con i loro confini squadrati dai righelli dei colonizzatori, hanno più o meno il medesimo valore culturale delle macro-regioni mondiali del Risiko e includono al loro interno popoli estranei l’un l’altro e ne dividono altri che si considerano fratelli da secoli. Ma forse tutti ciò sarebbe stato superabile se le élite africane e gran parte dei popolo del continente nero, finito il colonialismo, non avesse commesso l’errore di guardare se stessi nello specchio deforme dell’ideologia occidentale, con conseguente vergogna del ‘sottosviluppo’ scaturite in massicce e spesso deliranti campagne di modernizzazione. Come ha segnalato Latouche in La fine del sogno occidentale, copiare le forme politiche europee ha rappresentato un atto di grave debolezza: “Se lo Stato nelle sue forme istituzionali può essere esportato, la società civile, che costituisce la carne viva della nazione moderna, non si esporta. Questa, fatta di tutto un insieme di contro-poteri che nutrono e al tempo stesso limitano le istituzioni, e cioé i partiti politici, i sindacati, le associazioni di qualsiasi natura… Questa società civile è riuscita a integrare provvisoriamente la logica corrosiva del mercato e dell’accanita concorrenza economica e, al tempo stesso, a frenare le tendenze dispotiche di qualsiasi potere e le propensioni autoritarie di qualsiasi governo. Questo miracolo di equilibrio proprio della società moderna, che ha perfino consentito di vedere nello Stato una figura della provvidenza, è il risultato di un fragile compromesso storico tra individualismo e solidarietà, tra tradizione e modernità”. Il risultato finale è aver creato una politica che appare estranea e aliena alla cittadinanza che pretende di rappresentare; che si tratti di regimi liberali o dittatoriali, lo Stato tende sempre ad assumere un carattere autoritario e hobbesiano, quando non degenera nel personalismo. Ecco quindi il successo di tutte quelle iniziative che in Occidente bolliamo come ‘tribali’ o ‘claniche’, a prescindere dalla loro genuinità.

Difficile prevedere come uscirà il Mali – sicuramente non bene – da questo conflitto. Certamente tra l’abbraccio mortale con l’Occidente assetato di risorse e quello con Al Qaeda e il fanatismo religioso, esiste una terza possibilità, che però richiede che gli africani vedano la loro immagine vera e non riflessa su di uno specchio deformante. In quel caso ammirerebbero dei popoli che sono stati capaci fin dai primordi di vivere in armonia con la natura, riuscendo ugualmente a coltivare e rendere vitali alcune delle zone più ostili del pianeta; vedrebbero comunità animate e solidali, ammantate di una spiritualità che neppure la diffusione del consumismo occidentale è riuscito più di tanto a incrinare; vedrebbero un continente che, malgrado abbia dovuto subire alcune delle peggiori nefandezze che la storia umana ricordi – l’olocausto nero della tratta degli schiavi, l’invasione coloniale, le draconiane politiche di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale – non si è mai dato per vinto. Potrebbero dimostrare con i fatti che “ciò che arrogantemente definiamo la ‘stagnazione’ di molte società non europee può essere invece un’elaborazione diversa e un arricchimento di quei tratti culturali eticamente e moralmente incompatibili con il dinamismo predatorio che gli europei così disinvoltamente identificano con il ‘progresso’ e la ‘storia’” (Murray Boochkin).

Quando succederà questo atto di autocoscienza, allora sarà il momento dell’orgoglio africano; fino ad allora, dovremo accontentarci del triste spettacolo della hybris occidentale elevata a forma suprema di giustizia.

di Igor Giussani

Fonte: Decrescita.com

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