Caro Filippo,
ti rispondo riprendendo i tre livelli progressivi delle nostre divergenze, che riconosco pienamente.
Limitatamente al piano che definisci “pragmatico e di breve periodo” ti sembra che le nostre visioni siano in realtà sostanzialmente compatibili. Sembra anche a me.  E da questo punto di vista direi che il tuo errore principale sia quello di non fermarti qui.  Come ti ho detto credo sia della massima importanza fare una chiara differenza fra le scelte etiche personali e ciò che si propone come la posizione programmatica di un movimento, in questo caso quello della Decrescita Felice, che aspiri ad aggregare consenso per incidere sulla realtà.
Dici bene che pragmatismo non vuol dire resa, ma, pragmatismo o resa, rispetto a quali obiettivi? Quando questi sono troppo ideologici o irrealizzabili, la resa può rappresentare anche il fare spazio ad un principio di realtà. 
Nella fase politico-culturale in cui siamo mi sembra che una linea pragmatica sarebbe quella di proporre ipotesi di lavoro condivisibili da chi abbia a cuore in senso ampio la salute del pianeta e non solo da chi si pone su posizioni, forse anche avanzate, ma che suonano abbastanza settarie e che comunque non credo possano passare senza un adeguato dibattito.

Ora, tu rifiuti l’ “-ismo” aggiunto alla parola “vegetariano” e dici che si tratta solo di una scelta alimentare e quindi di una relazione ecosistemica. Bene.  Ma, se questo vale per la scelta personale in sé (che, come ripeto, io apprezzo moltissimo anche se non la faccio mia) quando la si rivendica come la presa di posizione propria di un movimento per la trasformazione del modello di società, si passa oggettivamente sul piano dell’ideologia.  E ciò è tanto più vero quando sembra che la si voglia far passare come un aspetto necessario di questa transizione mentre non lo è.  Perché, se la Decrescita si pone l’obiettivo di riproporzionare le modalità di produzione e le quantità dei consumi a livelli sostenibili, ha certamente senso affermare che zootecnia e pesca industriali come si danno oggi non rientrano  assolutamente in tali livelli.  Ma se arriviamo a pretendere che allevamento e pesca in quanto tali siano da rifiutare “allo stesso modo delle centrali nucleari “, ci mettiamo su posizioni francamente risibili agli occhi di chiunque non sia ideologicamente predeterminato a far passare questi discorsi insieme ad altri molto più sensati – quelli propri della Decrescita – rispetto ai quali serve un ridimensionamento e un radicale cambiamento di queste attività, ma non necessariamente l’abolizione.  Niente affatto, dato che il pianeta – e l’umanità con esso – potrebbe continuare a vivere in ottima salute per un tempo indefinito pur con allevamento e pesca sostenibili, come del resto è stato fino a pochi decenni fa quando per questi ancora erano usate le metodologie tradizionali.

Il problema è che attualmente il sistema sviluppista ha raggiunto una tale egemonia – anche nell’immaginario – che ciò che ne resta al di fuori viene automaticamente ignorato nelle sue specificità. Ed è per tanto facile accorpare queste attività nella loro versione tradizionale a quelle attuali industriali.  Come è facile dire che riconoscere il valore di allevamento e pesca come risorsa per le realtà marginali sia esso stesso un discorso “marginale”.  Nei fatti, di terre marginali ce ne stanno moltissime anche nei paesi sviluppati come il nostro come ce ne sono, nel resto del mondo,  all’interno stesso delle pianure coltivate industrialmente, delle periferie delle città, in tutti gli spazi utilizzabili, piccoli e dimenticati, che sono però una risorsa per moltissime persone, marginali anch’esse, che ne traggono una sussistenza, molto spesso con l’allevamento di qualche animale da latte o da cortile o con un po’ di pesca.  Anche nelle zone tropicali e temperate dove spesso si vedono modesti branchi di oche o capre e piccoli stagni autorealizzati per tenervi dei pesci tra una risaia e l’altra. Queste risorse sono importanti, anche dove l’agricoltura è prospera, per molte fasce deboli della popolazione che non hanno terra o quasi, perché la marginalità non riguarda solo i terreni, ma anche le persone.  E non si deve dimenticare che gli animali avranno pure una capacità di conversione dei vegetali in proteine molto bassa, ma, allevati a livello familiare, valorizzano sostanzialmente il “nulla” in quanto possono essere nutriti con alimenti di scarto, sottoprodotti che andrebbero buttati, portati a pascolare su terreni altrimenti improduttivi, boschi, savane, rovaie, beni che altrimenti andrebbero persi comunque e sui quali  l’agricoltura industriale non ha interesse a mettere le mani e che quindi restano alla portata di chi non ha sufficiente terra buona propria da coltivare (cosa che vale anche qui da noi dove un eventuale neo-contadino senza grandi mezzi finanziari può trovare una possibilità solo in territori ormai abbandonati perché considerati insufficientemente produttivi).  Inoltre gli animali o i prodotti derivati (carne, formaggi) una volta venduti sono una fonte di denaro liquido (sempre il bene più difficile da ottenere per i contadini) decisamente superiore alle verdure.  E, se vogliamo pensare ad un’agricoltura che sia biologica, gli animali sono indispensabili per l’apporto del letame – che li rende trasformatori di vegetali in una duplice valenza e che permette (gratuitamente) di avere una resa in cibo vegetale (anche vendibile) superiore a parità di superficie coltivata (che non è una differenza da poco per molte popolazioni povere nel mondo).  Se poi vogliamo considerare quali sono le zone dove si concentra la maggior parte dell’umanità, oltre (e insieme) alle zone tropicali e temperate, queste sono le coste  dove – anche lì – non tutti hanno accesso alla terra il che rende la (piccola) pesca irrinunciabile per milioni  di persone. 
Il piccolissimo allevamento, dunque, non solo da noi, ma nel mondo (così come la piccola pesca) sono risorse che fanno la differenza per una parte non trascurabile dell’umanità.  Che sia costoro sia i terreni che utilizzano (a tutte le latitudini) siano definiti “marginali” è un concetto che appartiene ai criteri di valutazione dell’agricoltura industriale, sviluppista e destinata essenzialmente ad alimentare gli abitanti delle città: al mondo della crescita per il quale un terreno coltivato in maniera contadina è marginale già solo per questo, al di là di dove si trovi.  Ed evidentemente anche per chi ha interiorizzato (magari senza rendersene conto)  questi criteri, anche i discorsi che si pongono il problema di chi vive su tali terreni, sono ugualmente marginali.  Faccio presente che, se oggi il mondo non è ancora andato del tutto in malora, schiacciato sotto il peso del consumismo e dei suoi effetti collaterali, ciò non è tanto perché alcune persone mettono i pannelli solari sul tetto o perché un paese piccolissimo come la Danimarca si sta per produrre tutta l’energia con l’eolico – per ottime, sacrosante, importantissime e necessarie che siano entrambe queste cose e molte altre misure di questo genere (non vorrei esser frainteso) – quanto soprattutto perché  metà della popolazione mondiale vive ancora di piccola agricoltura di sussistenza, ovvero perché è composta ancora da contadini  (ed anche da pastori e pescatori) che non aderiscono – che sia per scelta o per impossibilità – all’economia consumista.  Non riconoscere a questo l’importanza che ha fa parte dell’incapacità propria della visione tipicamente occidentale, positivista e progressista – sempre impegnata nella sua costruzione di “mondi migliori” – di vedere a volte anche il valore semplicemente del non-fare.

Il vero problema oggi non è che nel mondo ci sono troppe persone che mangiano carne o pesce (a parte considerazioni di quantità, modalità di produzione e qualità), ma che ci sono troppe persone che vivono in città e che dipendono totalmente dal sistema consumistico.  Dipendono dalla possibilità di sprecare anche solo per sopravvivere.
Dunque a me appare prioritario, di fronte a qualsiasi altra considerazione, che bisogna ci siano le possibilità economiche di sussistenza per chi ancora vive fuori da questi meccanismi per restarci e per chi ne vuole uscire per avere un’alternativa.  Quest’alternativa, su scala di massa, la può dare esclusivamente l’economia contadina.  Forme di economia che – al di là di come oggi potranno esprimersi esteriormente e culturalmente, e quindi a prescindere da aspetti estetici, ideologici e da qualsiasi tipo di “mistica” – possano essere definiti contadini per le loro oggettive caratteristiche strutturali e funzionali e il loro tipo di interazione ecosistemica. E perciò, se determinate attività di allevamento e pesca a livello contadino possono permettere una sussistenza (relativamente) liberata da questo sistema (e quindi costituire anche elementi di sostegno sottratti ad esso) è importante che queste ci siano, prima e al di sopra di ogni altra considerazione, se vogliamo guardare le cose in un’ottica ecosistemica e planetaria, per l’insieme dei diversi popoli della Terra nelle loro diverse condizioni e, viste le alternative, nell’interesse anche di tutte le specie viventi nel loro complesso.

Se vogliamo rimanere sulle tematiche strettamente attinenti la prospettiva economica della Decrescita, potremmo, come giustamente dici, fermarci qui.
Ma, quando si equipara ogni produzione e consumo di carne e pesce al nucleare; quando si presenta   come intrinseca alla Decrescita (che mi sembra essere la via per salvare il pianeta) l’opzione vegetariana (e magari perfino vegana) la posizione è talmente manifestamente ideologica che non credo di tirarcelo io, ma è il discorso che si allarga da sé su altri piani.

Anch’io concordo con Pallante sul fatto che la visione della Decrescita non si riduce all’economia, ma ha la potenzialità di aprire una fase storica nuova al tempo stesso sul piano economico, su quello culturale e per una diversa visione del mondo.  Direi anzi che, in realtà, il cambiamento che comporta la proposta della Decrescita si trovi a buon diritto in primo luogo sul piano filosofico.  Però, il problema è che, se mettiamo le cose su questo piano nel presentare pubblicamente delle proposte “programmatiche”, cadiamo immediatamente nella debolezza della frammentazione.  Perché, sul piano filosofico o, come dici tu, di lungo periodo, ognuno di noi può avere la sua idea – ognuna diversa dall’altra per  fondamenti o anche per sfumature, che, in questi casi diventano regolarmente importantissime – ed è giusto che abbia la libertà di avercela.  Io, ad esempio, posso essere convinto che la meditazione sia una pratica che, su scala di massa, sarebbe in grado di per sé di cambiare il mondo in meglio; molto più di tante altre cose.  Ma non mi sognerei mai di porre questo come un punto necessario tra le proposte di un movimento che cerchi di operare una trasformazione del modello di società.  Si tratta di scelte personali, sulle quali ben venga il dialogo e il confronto, ma che su questo piano devono restare.  Se vogliamo attenerci ad una linea pragmatica faremmo meglio a limitarci ai punti  indispensabili per riconvertire l’economia verso livelli e modalità sostenibili, che siano così oggettivamente tali da poter aggregare un consenso da più parti e poter effettivamente ottenere qualche risultato.  Altrimenti staremo a definire con precisione filosofica quali sono i contenuti che  appartengono peculiarmente al pensiero della Decrescita distinguendoli da quelli del Bioregionalismo o da quelli (Dio ce ne liberi) del darwinismo sociale o di quant’altro.  Ma, all’atto pratico, temo non faremo che ripetere il destino – questo sì che ha una tradizione lunga e inconfondibile – delle Sinistre italiane radicali: quello di essere divise in gruppi e gruppetti, ognuna con una grande visione e mille “distinguo”…. e di contare perennemente come il due a briscola.   

E mi ritrovo altrettanto nel riscontrare che, quando va prendendo forma un nuovo modo di pensare molti continuano a interpretarlo con le lenti dei concetti vecchi a cui già sono abituati. Ma il punto è capire qual è questo nuovo pensiero, perché a me pare di riscontrare questo tipo di atteggiamento equivocante proprio nelle tue parole, non nelle mie.

A chi la attribuisci questa “mistica” della civiltà contadina e di tutto ciò che “odora di tradizione”?
Non vorrei che mi proiettassi addosso l’immagine di qualcun altro.  Sai, anche con le persone capita di equivocare basandosi su incontri precedenti.  Io, se guardi bene, non ho “osannato incondizionatamente” proprio niente, però  ho elencato una serie di caratteristiche che definiscono il modo contadino di lavorare in agricoltura (gestire il proprio lavoro indipendente e la propria interazione ecosistemica) che sono tutte di tipo funzionale e non estetico-culturale o mitologico: sono tutte caratteristiche che puoi immaginarle tanto per un contadino antico-etnico-esotico-tradizionale  quanto per un neo-contadino che (per ipotesi) ama la musica rock e la sera beve birra  con gli amici, divorziato  (pure omosessuale se vuoi) e quant’altro. E per sgombrare il campo da altri ed eventuali equivoci ti dirò che se riconosco la realtà della violenza/sopraffazione come una componente della realtà lo dico solo come un dato di fatto e senza alcuna “mistica” di qualunque tipo la volessi immaginare – magari confinante con il darwinismo sociale o qualche altra amenità che non ha nulla a che fare con le cose di cui parlo.

È invece nel tuo modo di vedere che ci trovo, al contrario, un tipo diverso di “mistica”: la mistica del Progresso…..purtroppo un parente filosoficamente molto stretto della Crescita e dello Sviluppismo.
Un’abitudine mentale che rispunta ovunque e che impedisce ancora di andare davvero al di là della dicotomia politico-filosofica destra-sinistra.  Forse soprattutto per chi viene da sinistra dato che, mentre per la destra il progresso si è sempre identificato di diritto con la volontà del potere (e quindi si è sempre concentrata – pragmaticamente – sui modi per prenderlo e mantenerlo) per la sinistra il progresso è sempre stato il fine supremo rispetto al quale il potere era solo il mezzo (diciamo, almeno per quelli ideologicamente onesti).  Lo sguardo era sempre rivolto a un qualche “sol dell’avvenire”: si è sempre trattato di creare un’umanità migliore, un mondo migliore; qualcosa che andava di molto al di là delle singole piccole questioni concrete sulle quali non ci si poteva unire a chi non aveva uno stesso così nobile obiettivo.  Meglio continuare a perseguire quello dunque e non perderlo di vista (la resa)…..anche a costo di assistere al mondo che andava da tutt’altra parte.

Per non infrangere il tabù dell’intoccabilità del progresso si finisce troppo spesso per leggere le cose in modo fuorviante.
Ad esempio: è un fatto di facile intuizione che i semi dell’oggi fossero presenti già ieri.  Certo, ma dove? Tu dici che il processo storico che porta al sistema della Crescita è iniziato nel neolitico (forse quando gruppi umani originariamente vegetariani, pacifici – ed immagino anche matriarcali, probabilmente? – avrebbero fatto un’improvvisa – questa sì – “sterzata senza preavviso” diventando cacciatori, carnivori e così poi pastori e perciò inevitabilmente guerrieri, conquistatori, monoteisti, patriarcali, fascisti, razzisti, sessisti ecc…?) e che i germi dell’industrialismo consumista attuale erano già presenti nella dimensione di vita contadina del passato.  Ma, nella tua visione storica di lungo periodo, tu forse dimentichi che civiltà agricole di ogni altra latitudine nel mondo non hanno dato origine a modelli economico-social-culturali in alcun modo simili a quello dell’occidente moderno e che neanche le stesse popolazioni contadine occidentali lo hanno fatto perché non sono mai state loro ad avere le posizioni di comando né di egemonia culturale nella civiltà occidentale.  Una cosa è riconoscere che la dimensione di vita che apparteneva alla gran parte della popolazione in epoca premoderna  era la civiltà contadina ed altro è dire che la visione del mondo occidentale moderna e capitalista che dopo una lunga incubazione si è manifestata come sistema della crescita infinita è la fase successiva della civiltà contadina.  Sarebbe come dire che un organismo devastato dai vermi è la fase successiva di quell’organismo quando era sano. Non è affatto così: è la fase successiva dello stadio larvale di quel parassita.  Se poi vogliamo parlare delle componenti di avidità, inconsapevolezza, egoismo, ristrettezza mentale, aggressività che anche fanno parte della natura umana, vabbé….ma credo fossero presenti anche prima del neolitico, quanto a questo, né, temo, basti essere vegetariani per liberarsene.

Ma se è del sistema della Crescita che vogliamo parlare, questo è nato tecnologicamente dall’industrialismo ed economicamente dal capitalismo – nonché culturalmente dall’illuminismo/progressismo – tutti fenomeni propri delle classi dominanti cittadine.  È nato dall’attitudine tutta occidentale, universalistica ed antropocentrica (o, se vuoi, umanista) di vedere l’essere umano come separato dalla Natura, la realtà come creazione culturale dell’uomo e per il resto come mèra materia grezza da trasformare in un mondo “migliore” a immagine e somiglianza delle proprie fantasie, aspirazioni, paure, della propria incapacità di stare anche un po’ in silenzio e contemplazione.

È del tutto falso e fuorviante dire che il sistema attuale della Crescita sia la prosecuzione in modo più “efficiente” di una sua versione precedente che ebbe forma contadina.  Bisogna capire che non tutto ciò che è esistito prima di una certa data ed avesse a che fare con l’agricoltura si possa indifferentemente definire “contadino” – senza parlare del resto dell’umanità fuori dall’Europa (quasi tutti contadini anch’essi che certo non hanno “prodotto” il sistema della crescita ma l’hanno totalmente subito).  Ed inoltre, di quale periodo della storia contadina dell’uomo stiamo parlando? Gli esseri umani ovunque sono stati (e sono tuttora in gran parte) contadini (e pastori e pescatori) non solo nell’ultimo secolo o due prima della rivoluzione industriale, ma per migliaia e migliaia di anni a dir poco e la loro economia è sempre stata di tipo sostanzialmente “circolare”, senza crescita e tendente al mantenimento delle risorse e degli stili di vita. 
Dire che il sistema della Crescita sia la prosecuzione sotto altre spoglie di caratteristiche già insite nella civiltà contadina solo perché quest’ultima l’ha preceduta mi sembra una superficiale semplificazione, come dire che gli USA sono la prosecuzione dell’alleanza tra le tribù Sioux.  E neppure si può così facilmente sorvolare sulla fortissima stratificazione sociale che c’era al momento dell’avvio del capitalismo, della rivoluzione industriale e della modernità, per la quale fenomeni che avvenivano nella stessa nazione potevano benissimo avere origini in contesti materiali e culturali propri di una classe (in questo caso quella cittadina borghese) che rimanevano del tutto estranei a quelli di un’altra (quella rurale contadina) che fu letteralmente travolta e colonizzata dai processi in atto.  Questo senza “osannare”, idealizzare né misconoscere nulla.  Ma – anche senza neppure entrare nel merito di giudizi di valore – non si può mischiare tutto a proprio piacimento e chiamare questo “una visione storica di lungo periodo”.

Né si possono mischiare cose che non c’entrano nulla come il Darwinismo sociale.  L’errore grossolano di questa corrente di pensiero familiare al fascismo – ma a ben vedere neanche così estranea al progressismo se la misuriamo su scala mondiale – non è nel riconoscimento che anche tra le società umane si affermano in termini di dominio e di egemonia anche culturale quelle più forti e più adatte a sfruttare le circostanze a proprio vantaggio, perché questo è solo un fatto.  Ma nell’attribuire a questo fatto un valore di superiorità oggettiva dei popoli/culture momentaneamente vincenti, quasi fosse il segno di una superiorità naturale e senza tener presente che in Darwin il successo evolutivo è indice di adattamento alle condizioni contingenti e non di una qualche “superiorità” (non c’è “superiorità” nella Natura: nessun “giardino dell’Eden”, nessuna “età dell’oro” né nel passato, ma neanche nel futuro).  Confondere la scala temporale dell’evoluzione biologica con quella delle società umane è sempre fonte di grossi guai.  Ma, anche restando sul tempo umano, dovremmo prendere atto che solo alcune società/culture tradizionali, tribali e contadine hanno saputo creare e mantenere una forma in grado di sopravvivere e durare davvero a lungo mentre grandi civiltà con i loro progetti di mondi migliori sorgevano e scomparivano.  Chi è stato allora il “vincente” sul lungo periodo?
Non so però se tu, nel tirare in ballo il Darwinismo sociale, e denunciarne l’accettazione della violenza/sopraffazione come fenomeno presente nella competizione tra gruppi umani,  noti anche quest’altro aspetto, della presunzione di superiorità del vincitore, che lo caratterizza.
È interessante, perché è un tema di fondo dell’ottica progressista, come lo è quello di mischiare ordine naturale ed ordine sociale, nella presunzione – questa davvero antropocentrica, anzi, prometeica – di poter agire sul primo come si può fare sul secondo (e, alla prova dei fatti storici, abbiamo visto che….. pure sul secondo,.. non è così semplice).  In realtà il successo evolutivo o la durata dei modelli sociali dipende dalle circostanze storico-ambientali, perché tanto il sistema degli aborigeni australiani che il celeste impero cinese son durati molto a lungo, ma sono finiti quando le condizioni rispetto alle quali rappresentavano un adattamento funzionale sono cambiate.  Un saggio modello di società dunque sarebbe quello di organizzarsi in modo da mantenere relativamente stabili (“circolari”) le proprie relazioni con l’ecosistema e con le altre società.  Tutt’altra impostazione del progressismo, direi.

Mischiare la possibilità (presunta, ma diamola per buona) di agire sul sociale umano con quella di poter fare lo stesso con l’ordine naturale in base all’idea che entrambi si costruiscano a partire dalla capacità di scelta ed azione conseguente degli individui (non solo umani mi pare di capire) e non in base ai limiti consentiti da condizioni contingenti date, dà luogo, mi sembra, ad un panorama abbastanza fantasioso come in una sorta di “evoluzionismo karmico” in cui forse gli animali carnivori hanno “scelto” di essere tali, l’oca di essere un consorte geloso e possessivo (chiuso in casa con la moglie a guardarsi “Porta a Porta” forse?) e la madre topo di essere una “compagna”  solidale e comunitaria e tutti insieme danno forma al mondo e concorrono alle sue tendenze evolutive un po’ come i vari gruppi socio-politico-culturali alla società.  Non so… se a questo punto volessimo concludere – perdonami la volgare ironia intesa davvero solo a sdrammatizzare – che le oche saranno pure di destra, ma la topa è di sinistra, mi pare non farebbe una grinza con questo tipo di ragionamento antropomorfizzante. 
In questo contesto noi umani dovremmo dunque fare la nostra parte verso il raggiungimento di un qualche progresso – dovremmo fare le nostre scelte. Fare il nostro lavoro “politico” (evolutivo) all’interno della natura: dare la forma migliore all’ordine naturale, che, in fin dei conti, siamo noi.
Ma, dire che l’ordine naturale siamo noi e che possiamo agire su di esso dandogli una forma secondo le nostre scelte (come si farebbe sulla società – sempre che questo sia possibile) equivale a dire che un ordine naturale semplicemente non esiste in quanto tale. E siamo alla solita vecchia storia progressista (ha almeno due secoli: è vecchia anche lei ormai, nonostante il nome) per cui la natura è materiale inerte per la costruzione del progresso, espressione suprema di noi umani – che poi, a ben guardare, siamo noi moderni e occidentali(/zzati), perché gli altri perlopiù se ne infischiano di queste cose.
Dunque noi possiamo migliorare il mondo e pertanto dobbiamo farlo: abbiamo un ruolo salvifico verso un livello superiore, quello del progresso (moralmente inteso). 
Come c’è chi crede che per superare la crisi della crescita ci voglia più crescita (magari di un altro tipo) così c’è, a un livello diverso, chi vorrebbe risolvere gli approdi disastrosi della modernità con un nuovo progressismo.  Ma mai si coglie l’occasione di capire che è da un piano del tutto diverso che occorre ripartire.  Direi che è una storia che ben conosciamo, come ne conosciamo i risultati piuttosto disastrosi, proprio per por rimedio ai quali ultimamente si stanno manifestando nuove prospettive di pensiero, come quella – almeno, secondo come l’ho capita io – della Decrescita.  Il tipo di rimedio (ed il tipo di ragioni) che la Decrescita va a porre non va inteso (secondo vecchie ottiche) in termini morali, ma in termini funzionali, oggettivi e pragmatici dati dai limiti fisici del pianeta.
Il pragmatismo, il limitare gli obiettivi dei movimenti e delle loro campagne a singoli temi concreti, in quest’ottica, non è dunque solo tattico, ma significa aver consapevolezza che il punto è soprattutto rimediare ai gravissimi errori umani che agiscono a tanti livelli, non puntare a costruire una qualche utopia comunque sia concepita.  Limitarsi ad aggregare sostegno e consenso di diversa provenienza su una serie di punti concreti e strutturali che definiscano e realizzino un diverso modello economico già di per sé darebbe luogo ad  una società molto diversa e che avrebbe soprattutto un diverso impatto (una diversa compatibilità) verso il pianeta e le altre società, mentre quanto al modo in cui ne intendiamo il significato filosofico ed i valori fondanti potremmo anche lasciare questo alla dimensione personale e relazionale di ognuno.  E questo limitarsi si basa nella fiducia che nell’ecosistema pianeta Terra, nella Natura, una fondamentale sanità e saggezza c’è già, senza bisogno di missioni salvifiche umane.  E ci sarebbe anche negli uomini, se un po’ più alla Natura (ed alla pura e semplice accettazione della sua biodiversità si riavvicinassero).

E qui arriviamo al punto dell’ordine naturale che è poi quello sul quale, a mio avviso, si esprime nel modo più chiaro la tua visione fondamentalmente progressista – che, nello spostarsi dal piano sociale a quello biologico/evoluzionistico/planetario si manifesta esplicitamente come una “mistica”.
E’ certamente vero che l’ordine naturale non è qualcosa di statico, dato una volta per sempre.  Non c’è nulla di così “fisso” nell’universo.  Ma qual’è la sua scala temporale? La Natura, come la conosciamo oggi (e pure quella che vive dentro di noi), i suoi equilibri, le sue leggi e le caratteristiche, i comportamenti – come anche i limiti – propri dei diversi esseri viventi sono il risultato della somma delle esperienze e delle interazioni di tutte le forme di vita che si sono succedute in milioni e milioni di anni  condizionate a loro volta dalle leggi fisiche, chimiche, biologiche, dalla struttura del sistema solare e dell’universo ecc… Tutte cose certamente non statiche, ma che esistono (o meglio avvengono) su tempi evolutivi così lunghi che noi dobbiamo rispettarne i risultati come fossero eterni.
Sappiamo pure che la curva del tempo vicino al Sole o a Giove, a causa della loro massa, non sarebbe la stessa che sulla Terra, ma, all’atto pratico, questo ci cambia qualcosa quanto a come vivere qui?
Credo dovremmo uscire un po’ di più dall’astrattismo occidentale e ricordare che la nostra vita è in primo luogo fisica e la nostra esperienza in primo luogo empirica, e diretta.

Ed è senz’altro altrettanto vero che l’ordine naturale siamo ANCHE noi, ma anche; insieme ad un’infinità di altre cose e forme di vita molto diverse da noi – che non tutte possiamo né potremo mai comprendere del tutto.  Dobbiamo rassegnarci al fatto che la realtà – nonostante la nostra evoluta intelligenza – va infinitamente al di là di noi.  E che perfino al nostro interno la nostra parte cosciente, pensieri, opinioni, aspirazioni, sentimenti ecc… è solo una frazione parzialissima di ciò che siamo.  Siamo parte dell’ordine naturale soprattutto come corpo, energia, vita: qualcosa in cui l’aspetto teorico, culturale e ciò che sta nella nostra capacità di scelta e di controllo è limitatissimo e non riguarda le cose fondamentali.  È veramente un’ingenuità moderna e progressista credere di poter trattare con l’ordine naturale delle cose come con le nostre analisi sulla società.
Non è un caso che ogni sorta di utopia sociale non si sia mai realizzata.  Perché, non solo erano insufficienti i presupposti al livello dell’analisi dell’ordine sociale, ma anche quelli (spesso del tutto assenti) relativi al nostro posto nell’ordine naturale.  Forse è proprio questione in primo luogo di mettere un po’ d’ordine: noi umani apparteniamo alla Natura e non viceversa, tanto è vero che potremmo benissimo scomparire senza danno per l’insieme del pianeta (anzi)….e figuriamoci poi per l’universo.  Bisogna riconoscere che la nostra condizione di base è un ordine naturale che ci comprende e che ha preso forma – dinamicamente – in un tempo immensamente più ampio della nostra comprensione (quella reale, non quella teorica della curva del tempo su Saturno). Quando condizioni e risposte si sono ripetute funzionalmente fino a diventare una costante si sono manifestano delle “leggi” o caratteristiche della realtà che sono quelle della vita su questo pianeta.  Per noi umani queste cose sono fondamentali, eterne – anche se sulla scala dell’universo possono essere momentanee e potranno cambiare.  Quel giorno noi, anche come specie – e probabilmente il nostro stesso pianeta – non ci saremo più da un pezzo.
Queste “leggi” ci assegnano certi “limiti” solo all’interno dei quali – è evidente che a questo punto siamo molto al di là del discorso vegetariani o meno – possiamo vivere armonicamente con il mondo e con noi stessi.  Queste “leggi” dobbiamo comprenderle, vederne l’impersonale intelligenza intrinseca e ad esse imparare ad adeguarci.  Non c’è altro da fare.
Poi, sulla base di questo – cosa per la quale occorre prima sapersi fermare e cercare di capire –  possiamo agire e lavorare per cercare di modificare le nostre società nel modo più giusto ed equilibrato secondo il punto di vista di noi umani (o quantomeno della maggior parte possibile).  Ma si tratta di una cosa che – a parte i danni che altrimenti potremmo fare e che stiamo facendo – non è di così grande rilevanza per l’insieme della vita sul pianeta.
Qui sta la “piccola” differenza tra il mio atteggiamento e quello del sig.Rossi, caro Filippo, la cui equiparazione, scusami, ma mi sembra sia una cosa che sta, come si suol dire, “fuori dalla grazia di Dio”.  E’ come equiparare un monaco zen che medita in un monastero ed un autistico grave in un ospedale psichiatrico perché entrambi passano delle ore immobili senza cambiare posizione.
Laddove il proverbiale sig.Rossi si adegua ad un ordine che lo danneggia, ma che in certa misura gli appartiene, lo riguarda direttamente e che lui di fatto contribuisce a creare e/o a mantenere e dunque effettivamente potrebbe cambiare (almeno per l’effetto che ha su sé stesso), l’ordine naturale è qualcosa a cui noi apparteniamo, che è la nostra stessa natura – che ce ne rendiamo conto, e che ci piaccia, o no – che si trasforma su una scala temporale sulla quale noi non possiamo intervenire se non a livelli inconsci, genetici, su quel piano in cui il corpo e la mente sfumano l’uno nell’altra e ai quali ci possiamo cominciare ad avvicinare solo quando cominciamo a fermarci, porre fine ai danni che creiamo con i nostri sogni prometeici e a pensare un po’ alla qualità della nostra vita reale attuale (e non quella di un radioso domani) e cambiare in essa ciò che va cambiato a partire dalla base di un riconoscimento profondo nella Natura e nel suo ordine.

Possiamo riconoscere ed onorare l’infinita serie di esperienze ed interazioni e dunque la saggezza della quale è forma, cercare di capirlo per quanto possiamo ed interagire con esso nel modo meglio armoniosamente inserito possibile adeguandoci alle sue caratteristiche. 
Sulla base di questo fondamentale adeguamento, limitatamente a ciò che può essere “inventato” all’interno del nostro mondo sociale e culturale – che è la forma di adattamento evolutivo propria della nostra specie umana – possiamo esercitare la nostra ampia facoltà di scelta che non è piccola, a cui non dobbiamo rinunciare e che certo non va sprecata.
Non senza seguire il principio che ha prodotto sempre tutte le forme di questa storia evolutiva senza direzione: quello di rispondere alle circostanze e rispettare un senso della misura e delle proporzioni. 
Non solo per limitare il “peggio”, ma anche per limitare le pretese di “meglio”, che hanno fatto – proprio con le migliori intenzioni – già troppi danni.
Essere appieno ciò che già siamo realizzando noi stessi all’interno dei limiti del posto che ci è proprio secondo l’armonia degli equilibri ecosistemici.
E vivere, senza metterci dell’altro sopra, è l’ordine naturale.

Un caro saluto

Sergio Cabras
www.ecofondamentalista.it
 

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