Approfondimento a cura di Stefano Musaico.

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È da poco iniziata la primavera con temperature già quasi estive dopo una stagione invernale che solo in extremis (e solo sulle Alpi) ha visto le tanto attese nevicate. Marzo 2024 è stato il decimo mese consecutivo di caldo record, rendendo gli ultimi 12 mesi i più caldi mai registrati a livello globale, con una differenza di 0,70 gradi rispetto alla media del periodo 1991-2020, e di 1,68 gradi rispetto alla media preindustriale del periodo 1850-1900. Purtroppo però in Italia va anche peggio. Le Alpi, in particolare, sono infatti un hot spot (ossia un’area particolarmente colpita) del cambiamento climatico con un incremento più marcato rispetto alla media globale, pari a quasi il doppio. Ad esempio in Trentino la temperatura media dell’inverno 2023-2024 è stata di circa 3 gradi centigradi superiore alla media storica (dati Meteotrentino). 

Il riscaldamento globale ha un impatto molto significativo sulle Alpi e si manifesta con eventi meteorologici estremi, il ritiro dei ghiacciai e la sempre più grave carenza di neve con conseguenze sulla disponibilità di acqua nelle valli sottostanti. Se nelle Alpi le ultime nevicate primaverili sono riuscite a colmare, dopo due lunghi anni, il deficit dello Snow Water Equivalent (SWE, l’acqua contenuta nella neve), la situazione resta molto critica in Appennino. Proprio a causa di questo repentino riscaldamento infatti, la presenza al suolo di neve naturale, soprattutto sotto i 2000m di quota, è già da anni in forte diminuzione e le prospettive future non prevedono miglioramenti della situazione.

L’industria dello sci e la neve artificiale

Turismo Montagna
Una pista da sci innevata artificialmente tra i prati verdi di Vipiteno a inizio marzo 2023

E’ palese che la mancanza di neve ha forti ripercussioni sul settore turistico invernale legato allo sci alpino, un settore che fattura vari miliardi di euro ogni anno (tra i 10 e i 12 secondo i dati Anef) e che dagli anni ‘50 ha stravolto, nel bene e nel male, diverse valli italiane dando lavoro in maniera diretta a circa 30mila persone. Un settore che ha monopolizzato la maggior parte degli investimenti nel corso degli anni, limitando così le possibilità di sviluppo di alternative e creando una delicata monocoltura turistica che, anche per le dimensioni raggiunte, ha difficoltà ad adattarsi al nuovo contesto climatico. Basta guardare il rapporto tra i 148 milioni di euro destinati l’anno scorso dal Ministero del Turismo all’ammodernamento degli impianti di risalita e di innevamento artificiale a fronte dei 4 previsti per la promozione dell’ecoturismo.

Per ovviare alla carenza di neve naturale, tanti comprensori sciistici e le varie amministrazioni pubbliche coinvolte hanno previsto grandi investimenti per costruire impianti per l’innevamento artificiale e relativi bacini di accumulo dell’acqua, unica forma di adattamento al mutamento del clima in atto.

Diversi studi recenti dimostrano però che questi investimenti non sono altro che un accanimento terapeutico per nulla lungimirante. Per creare neve artificiale infatti sono necessari tre ingredienti: energia, basse temperature e acqua. Durante la crisi climatica che stiamo vivendo, contare su queste tre risorse può essere molto rischioso.

Nuovi bacini e nuovi impianti per l’innevamento artificiale, finanziati spesso con soldi pubblici, rendono quindi i comprensori sciistici sempre più insostenibili sia dal punto di vista economico che ambientale.

Un recente studio di Banca d’Italia “Cambiamento climatico e turismo invernale per l’Italia” ha analizzato la relazione tra precipitazioni nevose, passaggi presso gli impianti sciistici e soggiorni turistici utilizzando una nuova base dati che associa le condizioni meteorologiche ai flussi turistici invernali negli ultimi vent’anni, a livello di comprensorio sciistico, per 39 località alpine italiane. Lo studio fornisce una stima della potenziale perdita futura per il turismo montano invernale dovuta al cambiamento climatico e sostiene che l’innevamento artificiale non sarebbe sufficiente a sostenere i flussi turistici. Inoltre i costi di innevamento artificiale aumenteranno in modo non lineare con l’aumentare delle temperature e oltre una certa soglia di temperature l’innevamento semplicemente non sarà praticabile. Basta vedere cosa sta avvenendo in Appennino dove comprensori dotati di impianti di innevamento artificiale sono costretti a chiudere per impossibilità di produrre neve, viste le altissime temperature.

Il report di Legambiente  “Nevediversa 2024” segnala che l’Italia è tra i paesi alpini più dipendenti dalla neve artificiale con il 90% di piste innevate artificialmente grazie a ben 158 bacini artificiali censiti dal report (sono quasi 6000 invece i km di piste da sci presenti in Italia). Nonostante questo però, Legambiente ha riscontrato nel 2024 un aumento sia degli impianti dismessi che hanno raggiunto quota 260, ma anche quelli “temporaneamente chiusi” (177) e quelli che sopravvivono solo grazie a forti iniezioni di denaro pubblico (214). Continuare a investire nell’innevamento artificiale quindi non sembra garantire la sopravvivenza di questo settore. 

A causa dei cambiamenti climatici, inoltre, si prevede un aumento dei conflitti per l’approvvigionamento di acqua per i suoi vari utilizzi: uso potabile, produzione di energia, agricoltura e produzione di neve artificiale. Secondo le stime del WWF e di Legambiente, circa 95 milioni di metri cubi d’acqua all’anno vengono impiegate a questo scopo, pari al fabbisogno di una città di circa 1 milione di abitanti. Per la produzione di neve è poi in costante aumento la domanda di energia necessaria a produrla, in un periodo nel quale dovremmo pesare molto bene gli utilizzi delle nostre fonti energetiche.

Per costruire i bacini sono inoltre necessarie notevoli movimentazioni di terra, abbattimenti di alberi, costruzione di nuove strade forestali, posa di tubazioni e nuovo cemento. Vi consigliamo di vedere il video qui sotto della costruzione di un bacino sul passo Pordoi, ai piedi delle Dolomiti. Bacini che spesso vengono spacciati per idilliaci “laghetti” alpini.

 

La costruzione di un bacino artificiale da 120.000 m3 sul passo Pordoi in Trentino

 

Anche la sempre più sbandierata multifunzionalità dei bacini artificiali, secondo cui essi potrebbero essere utili anche per combattere la siccità e gli incendi, è molto discutibile. Come sostiene il Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale i serbatoi artificiali sono sostanzialmente interventi monofunzionali, come mostra la realtà degli invasi esistenti, perché i diversi obiettivi a cui possono teoricamente contribuire sono tra loro conflittuali e nella pratica si possono raggiungere solo molto parzialmente. Il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda acquifera la cui ricarica controllata determina un ventaglio ampio di benefici oltre quello dello stoccaggio. Per ricaricare la falda sono inoltre necessari interventi molto meno impattanti e costosi.

Infine, come suggeriscono le Linee Guida per l’Adattamento della Convenzione sulle Alpi, di cui l’Italia fa parte, e lo studio di Banca d’Italia sopra citato, occorre una:

  • riduzione della dipendenza economica locale dall’attività sciistica, diversificando i prodotti turistici includendo attività che siano meno dipendenti dalla variabilità degli accumuli di neve;
  • qualificazione delle località alpine come destinazioni turistiche interessanti in tutte le stagioni dell’anno, dando impulso al loro potenziale turistico anche in assenza di neve e traendo vantaggio dalle opportunità offerte dai cambiamenti climatici.

Una montagna gestita con lungimiranza

Una transizione nella gestione dell’economia montana non solo è possibile e necessaria ma, nell’arco di pochi anni, comunque obbligata. La strada è sicuramente complessa ed è necessario evitare di imporre decisioni calate dall’alto. Un coordinamento locale orizzontale, con una regia pubblica, finalizzato ad aumentare la coerenza e le sinergie positive tra i vari attori locali, associazioni e cittadini è fondamentale per attuare scelte condivise e lungimiranti.

Sono ormai numerose e partecipate le manifestazioni organizzate nei comprensori sciistici (qui quella organizzata in Panarotta, in Trentino, lo scorso 27 gennaio) per denunciare gli investimenti pubblici sempre più anacronistici che cercano di mantenere in vita a tutti i costi un modello di turismo che ha ormai gli anni contati.

La manifestazione organizzata da 22 associazioni in Panarotta il 27 gennaio 2023. Foto di Pietro Cappelletti.

Se da un lato però i comprensori sotto i 2000m sono spesso in crisi rischiando di causare lo spopolamento di molti territori, i grandi caroselli sciistici continuano a costruire nuovi impianti e nuove piste da sci e si ritrovano piuttosto ad affrontare il problema dell’overtourism. Tuttavia “anche la grande pressione turistica crea spopolamento”, afferma lo scrittore Marco Albino Ferrari, “perché i prezzi diventano sempre più cari, aumentano gli affitti che quindi non sono più abbordabili dalla classe lavoratrice. Chi possiede un appartamento, lo vende, perché i mercati sono altissimi e così si smembrano intere comunità. Il turismo, se supera una certa soglia, diventa dannoso. Quando gli autoctoni sono costretti a usufruire dei servizi dei turisti, l’equilibrio si è rotto”.

Le basi scientifiche che evidenziano l’importanza di un cambiamento, come abbiamo visto, non mancano. Occorre in primis un grande cambio culturale che porti a ragionare nel medio-lungo termine e a scoprire l’inestimabile valore dei servizi ecosistemici offerti dalla natura che bisogna quindi preservare investendo in un modello di gestione del territorio resiliente. La creazione di monocolture, che siano quelle agricole o quelle legate a una singola tipologia di economia, rendono invece il territorio vulnerabile ai cambiamenti esterni.

E’ chiaro che lo sci alpino è un’attività molto importante per tante località e nessuno vuole o auspica la chiusura di tutti gli impianti. Proprio per salvaguardare i posti di lavoro ed evitare l’abbandono dei territori è necessario però analizzare con serietà l’attuale contesto e agire con lungimiranza. Il tema del turismo invernale montano è recentemente affrontato dal progetto europeo Beyond Snow che mira ad aumentare la resilienza socio-ecologica dei comprensori sciistici situati sotto i 2000m, i più vulnerabili al cambiamento climatico. Il progetto prevede l’elaborazione congiunta di nuovi percorsi di sviluppo sostenibile, processi di transizione e soluzioni attuabili all’interno di specifiche aree di lavoro pilota dislocate in sei paesi alpini. C’è, per fortuna, sempre più attenzione su questi temi e gli esempi di comprensori sciistici che hanno trasformato la propria economia sono ormai diversi.

Più di 15 anni fa, ad esempio, sul Dobratsch, una montagna austriaca non lontana dal confine italiano, gli impianti di risalita sono stati rimossi, dando vita a un parco naturale. Una decisione dovuta in primis alla sostenibilità economica, ma non solo. Oggi, gruppi di scialpinisti e ciaspolatori percorrono l’antica pista, i guardaparco organizzano escursioni invernali guidate, le famiglie si riuniscono per discese con lo slittino e gli amanti dello sci di fondo si godono le piste appositamente dedicate. Questa iniziativa rappresenta uno dei primi esempi in Europa di “rinaturalizzazione” motivata dai cambiamenti climatici.

Esempi simili si possono trovare a Gaver, Piani di Artavaggio e Piani d’Erna in Lombardia, Monte Tamaro in Svizzera più in tante valli che non hanno mai puntato sullo sci alpino ma che già da tempo stanno investendo in un turismo diversificato, più lento e meno impattante, come ad esempio la famosa valle Maira.

Montagna. Turismo. Decrescita Panarotta
La stazione d’arrivo di una vecchia seggiovia dismessa sulla Panarotta in Valsugana

Non è più accettabile sfruttare le montagne “fino all’ultima goccia” per poi abbandonarle appena si riducono gli utili insieme ai ruderi degli impianti e degli alberghi. Dopo l’idea, perpetuata per decenni, di portare la città con i suoi sfarzi e opulenze in montagna, creando dei veri e propri ‘Luna Park’, occorre un cambio di visione radicale. Un cambiamento che deve porre le proprie radici nel riscoprire i tanti lati positivi del rallentare e del valore della sobrietà, cioè la capacità di essere felici con poco. Non è un tornare indietro, non è un tornare nella povertà ma un ricominciare a distinguere i desideri dai bisogni. 

Una sobrietà a cui però vanno affiancati maggiori servizi pubblici che possano consentire una vita felice anche nei territori più isolati, evitando lo spopolamento e l’abbandono. Sono i servizi (accesso all’istruzione, presidi sanitari, luoghi di cultura, accesso a internet, ecc.) che rendono attrattivi luoghi “scomodi” come le località montane. Nel piccolo borgo veneto di Ferrara di Monte Baldo, la sindaca Carla Giacomazzi commenta: “Il prerequisito per attirare nuovi abitanti, e mantenere i presenti, è riuscire a offrire servizi. Non è facile con le risorse e le difficoltà tipiche della montagna. Cerchiamo di agganciare nuovi fenomeni, per esempio l’affermarsi del lavoro a distanza dopo lo scoppio pandemico. Per questo stiamo progettando un ostello comunale con aree per lo smart working. Qualcuno si è già trasferito qui”.

Le ormai frequenti ondate di calore e la vita frenetica delle città, insieme alla possibilità di lavorare da remoto, stanno facendo aumentare in tante persone la voglia di trasferirsi più in quota, più a contatto con la natura, magari con la possibilità di gestire un piccolo orto. Questo fenomeno sarà via via più importante in futuro ed è fondamentale gestirlo correttamente evitando di snaturare i luoghi, costruire nuove abitazioni e consumare prezioso suolo. 

Occorre quindi non consegnare la montagna alla monocoltura del turismo. È giunto il tempo per la politica di abbandonare la strada del “si è sempre fatto così” e percorrere una strada più lungimirante, più sostenibile, più condivisa ed equa, che contempli una moltitudine di attività sportive, culturali e sociali, non basata su grandi numeri e che renda i territori montani vissuti e vivibili in tutti i mesi dell’anno.

Uno scorcio del piccolo comune di Ostana in Piemonte,
rinato anche grazie alla cooperativa di comunità Viso a Viso www.visoaviso.it

 

Ricostruire comunità

Le montagne sono state per secoli un importante banco di prova per la gestione collettiva delle risorse naturali. Fare le cose insieme era l’unico modo per sopravvivere in territori difficili. L’intera popolazione si occupava della gestione dei boschi, della manutenzione dei torrenti, pascoli, sentieri, malghe, ecc. Con processi democratici e partecipativi si rafforzavano quindi i legami sociali andando a creare una comunità basata sulla fiducia, sull’impegno collettivo e sul mantenimento di un elevato valore sociale.

In molte parti del mondo, le comunità gestiscono insieme risorse e beni seguendo modelli organizzativi diversi. Questa pratica è comune soprattutto in aree vulnerabili e complesse. Tuttavia la crisi climatica, la globalizzazione, le crescenti disuguaglianze e tanti altri fattori hanno messo in crisi questo senso di comunità creatosi nei secoli che necessita ora di innovazione sia nella governance che negli obiettivi.

Da un recente studio emerge come nel tempo vengono riconosciuti nuovi valori collettivi alle risorse e allo stesso tempo nuove risorse vengono considerate come collettive. All’aiuto reciproco, legami di solidarietà, amicizie, anche tra vicini di casa, viene dato sempre più peso. Tuttavia l’aumento della complessità sociale con nuovi portatori di interesse richiede lo sviluppo di nuove regole e pratiche per favorire la discussione, la pianificazione, la partecipazione e l’accesso equo alle risorse condivise, senza che queste vengano mercificate. Un lavoro di cura collettiva potrebbe essere la chiave per creare comunità di montagna più attraenti e sostenibili nel futuro.

Interessanti esperimenti in questo senso possono essere gli ecomusei e soprattutto  le cooperative di comunità. Un esempio ormai famoso di queste ultime è certamente quello di Succiso, un piccolo paese nell’appennino reggiano dove un gruppo di giovani ha reagito alla chiusura dell’ultimo bar e negozio del paese costituendo una cooperativa di comunità, chiamata Valle dei Cavalieri, per contrastare il declino del paese. Ora conta 63 soci e 7 dipendenti fissi e gestisce attività agricole e di agriturismo, un bar ed un piccolo negozio di generi alimentari, il centro visita del Parco nazionale dell’appennino tosco emiliano, effettua il trasporto alunni delle scuole per conto del comune e svolge tante altre piccole attività. Propone quindi un turismo alternativo, basato sul territorio e sull’ambiente, evitando l’approccio invasivo dello sviluppo turistico tradizionale. Esempi di questo tipo sono ormai numerosi in tutto il territorio italiano, con interessanti esperienze anche nelle periferie urbane e nelle aree cittadine più degradate.

L’Italia è composta per oltre il 75% da territorio collinare o montuoso e i piccoli comuni, con meno di 5000 abitanti, sono il 70% dei Comuni italiani; luoghi che non possono e non devono essere considerati marginali. Allo stesso tempo è giunto il momento di abbandonare la logica estrattivista che negli ultimi decenni ha devastato interi territori per il vantaggio di pochi. La complessità del nostro periodo storico rende questa strada sicuramente non facile, ma partendo dalle tantissime buone pratiche sorte spontaneamente nel nostro territorio, c’è la possibilità di ricostruire comunità sempre più unite e resilienti.

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Due video di approfondimento: